«Per capire la Cina ci vuole un secolo, e noi non viviamo un secolo» dice papa Francesco ritornando dal Kazakistan. Per capire gli Stati Uniti, viceversa, il pontificato di Bergoglio ci ha messo di meno, se otto anni sono stati sufficienti a rimpiazzare l’immagine della gerarchia cattolica arroccata nelle city della politica con i volti di una chiesa più pastorale, che vive nei suburb.

D’altra parte, i numeri parlano chiaro. Secondo le recenti proiezioni del Pew Research Center, entro il 2070 i cattolici americani saranno definitivamente una minoranza: i trend confermano che in cinquant’anni i cristiani americani potrebbero passare dal 64 al 35 per cento, e questo calo è già visibile in Europa. 

Un andamento fisiologico, quindi, come spiega un interessante saggio pubblicato di recente dallo storico americano John T. McGreevy, Catholicism: a global history from the French revolution to pope Francis. Analizzando i fenomeni politici dell’era moderna, lo storico ritrae la chiesa come una barca sballottata dalla marea della secolarizzazione e dalle risacche del nazionalismo conservatore.

McElroy e gli altri

La scelta di volti progressisti nel clero americano, perciò, esprime la volontà del papa di impartire un nuovo equilibrio a un cattolicesimo americano sempre più tendente al manicheismo, come notava il presidente della Cei, Matteo Zuppi, su L’Osservatore Romano: «Penso alla forte polarizzazione politica rappresentata nella Chiesa americana.

Ma laddove la politica ha usato cateogrie pseudo-teologiche o spirituali per inquinare la vita ecclesiale alla fine hanno perso tutti». La creazione dell’ultimo cardinale nordamericano, il vescovo di San Diego Robert Walter McElroy, dice molto: «Se gli chiedi di parlargli, trova sempre il tempo per te, prende il cellulare e ti ascolta» dice don Bernardo Lara, il primo sacerdote ad essere ordinato da McElroy a San Diego: «Il suo ministero non si ferma ai libri, ma è una sincera dedizione verso le persone. Per me incarna l’impegno della chiesa nella giustizia sociale». 

L’ultima volta che Francesco ha creato un cardinale statunitense risale a due anni fa: a ricevere la porpora fu l’afroamericano Wilton Gregory, arcivescovo di Washington. Nel 2016 fu la volta di Blase Joseph Cupich e Joseph William Tobin, rispettivamente arcivescovi di Chicago e di Newark, di Kevin Farrell, della diocesi di Dallas. Due di loro, Gregory e Tobin, hanno guidato anni difficili, segnati dagli abusi del pedofilo seriale Theodor McCarrick, simbolo della gerarchia tutta soldi e politica. 

Le due facce della California

Il fondamentalismo evangelico acceso dalla presidenza di Donald Trump è stato appena smorzato dal suo successore Joe Biden. Malgrado Biden sia il secondo inquilino della Casa Bianca cattolico dai tempi di Kennedy, la sua apertura a istanze progressiste come il diritto all’aborto e il supporto alla comunità Lgbt+ gli ha attirato le critiche dei presuli più conservatori della California, come Salvatore Cordileone e José Gómez, rispettivamente arcivescovi delle estesissime diocesi di San Francisco e Los Angeles, eppure senza porpora.

Bill Chapman dirige il dicastero dedicato ai cattolici Lgbt+ di Los Angeles ed è volontario presso la parrocchia di Santa Monica, la parrocchia più Lgbt-friendly della megalopoli californiana: «La scelta di McElroy come nuovo cardinale è una grande notizia anche per la nostra comunità» ammette.

Dal lontano 1986, quando il cardinale Roger Mahony inaugurò il primo servizio dedicato ai cattolici Lgbt+, le cose hanno perso lo slancio con l’insediamento dell’arcivescovo Gomez: «Per prima cosa, ha deciso di cambiare il nome all’associazione, battezzandola Catholic Ministry with Lesbian and Gay persons – senza accenno alla fede dei fedeli omosessuali -. Anche se oggi la comunità non ha contatti diretti con l’arcivescovo, non si curano di quello che Gómez dice, perché parrocchie come Santa Monica o Saint Matthew in Longbeach accolgono da anni i credenti omosessuali. E non è una questione anagrafica o generazionale: a Santa Monica, il pastore ha 82 anni!».

Una chiesa Lgbt-friendly

Negli Stati uniti, la pastorale dei credenti Lgbt+ è tra gli aspetti che più esacerbano le posizioni tra i cosiddetti cattolici progressisti e conservatori e papa Francesco sta puntando a un rinnovamento in questa direzione, come mostra il recente rinnovo del mandato quinquennale presso il Dicastero vaticano per la comunicazione a James Martin, il  gesuita impegnato nella pastorale omosessuale.

Anche la scelta di McElroy va in tale direzione. Lo sa bene Aaron Bianco, docente a contratto in teologia presso l’University of San Diego. Dopo aver abbandonato gli studi da sacerdote, Bianco è stato incaricato della gestione della parrocchia di St. John, dove ha avviato iniziative ad hoc per i credenti Lgbt+. Ma dopo minacce e vessazioni omofobe, dalle scritte minatorie alle percosse per strada, ha rinunciato al suo ruolo preferendo non rischiare la vita.

Era il 2018 e l’allora vescovo McElroy tuonò in sua difesa: «Non c’è nulla di cristiano o di cattolico nelle persone odiose e vili che hanno perseguitato Aaron Bianco e lo hanno allontanato dal suo ministero». Oggi Bianco è entusiasta della sua nomina: «Da quando lo conosco, McElroy ha sempre accolto tutti nella chiesa, perché coglie i bisogni pastorali delle persone. Con la sua nomina, papa Francesco vuole anche dare un messaggio ai credenti che, altrove negli Usa, si sentono respinti da quella chiesa che dovrebbe esser loro vicina. Insegno all’università e alcuni miei studenti mi confessano di abbandonare la chiesa perché non posso accettare che respinga loro o i loro amici per l’orientamento sessuale. McElroy, al contrario, esce allo scoperto e parla con i fedeli, assicurandosi che chiunque abbia un posto dentro la chiesa».

Per Bianco la scelta di McElroy un messaggio ai credenti Lgbt+: «Ho incontrato papa Francesco lo scorso anno, a margine di una conferenza alla pontificia università Gregoriana di Roma. Quando gli ho spiegato che lavoro con i cattolici gay e lesbiche, mi ha invitato a continuare».

Una sfida per i latinos

L’elevazione di San Diego a sede cardinalizia è anche legata a un altro tema caro al papa, quello dell’immigrazione, in una città frontaliera, strettamente connessa con la metropoli messicana di Tijuana: «San Diego e Tijuana possono essere concepite come un’unica, grande area di scambio. È la città americana simbolo dell’immigrazione di confine» spiega don Bernardo Lara. Dalla presidenza Obama, la fisionomia del cattolicesimo americano è molto cambiata. Secondo le stime, oggi 6 cattolici su 10 vivono negli Stati uniti occidentali, l’area più interessata dalle ondate migratorie.

La parte orientale del paese, invece, ha mostrato nei decenni le storture di una gerarchia cattolica protagonista di giochi di potere, scardinati dall’effetto domino degli abusi, da Boston a Newark a New York: «La scelta di un cardinale a San Diego mostra che papa Francesco legge i segni dei tempi – spiega Bianco –. Se si guarda alle sue nomine, si coglie appieno la sua visione pastorale, lontana dal clericalismo». Ma la scelta di una sede come San Diego rappresenta anche una sfida per i cattolici latinos, gli immigrati in prevalenza ispanici conservatori, che costituiscono il 20,4% dei cattolici Usa.

Secondo don Bernardo Lara, questo aiuterà i latinos più conservatori ad abbattere i loro muri: «McElroy può aiutarli ad aprire la loro visione sugli uomini, che papa Francesco riconosce come Fratelli tutti. È una grande sfida anche per il mondo latinoamericano».

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