La contemporaneità a volte fa fatica con il pensiero complesso. È per questo che ha avuto difficoltà a dialogare con Benedetto XVI. Pur se non se ne condividevano alcuni approdi – pur sempre figlio del suo secolo –, non se ne poteva mettere in dubbio l’onestà intellettuale, la linearità dell’argomentazione, la lucidità del processo del pensiero. Tutte cose che la contemporaneità ha smarrito un po’, abituata a ragionare più per risultati che per processi. E il dialogo è un processo, non un risultato. Forse, con lui, finisce la storia del pensiero europeo del Novecento.

Saranno altri a provare ad illustrare la profondità della riflessione di Ratzinger prima (forse più interessante, perché più libera) e di Benedetto XVI poi. Da giurista, a me ha sempre colpito l’analogia, cui allude nel suo Introduzione allo spirito della liturgia del 2001, tra crisi della liturgia e crisi del diritto. Da questo accostamento, che mi ha sempre convinto a livello quasi di presentimento, mi sono lasciato interpellare a lungo.

L’analogia

Cosa c’è, in effetti, di analogo nella liturgia e nel diritto? Forse che entrambi dicono qualcosa sull’altro – o meglio, sull’irriducibilità dell’altro. Con la maiuscola per la liturgia: l’Altro; con la minuscola per il diritto.

La forza della liturgia sta, infatti, nella sua capacità di accompagnamento al mistero di un Altro che di per sé resta sempre inaccessibile, e che tuttavia è reso presente, pur sotto la specie di un velo. La sua potenza è quella di far affacciare sul mistero di questo immensamente Altro, piantandone nella mente l’intuizione e nel cuore il desiderio.

Allo stesso modo, il diritto rende presente l’altro, questa volta con la minuscola. Nella sua formulazione elementare e primaria – suum cuique tribuere, dare a ciascuno il suo –, che costituisce la misura minima della giustizia, il diritto definisce che c’è un ‘ciascuno’ e che ciascuno ha un ‘suo’, inalienabile, irriducibile. E quel ‘dare’ è la forma naturale, essenziale, primaria del rapporto con l’altro, condizione di ogni altro rapporto: «Il diritto è condizione dell’amore», aveva scritto nel 2010.

Se non ci fosse un Altro trascendente, non avrebbe senso alcuna liturgia. E allo stesso modo, se non vi fosse un altro – un ‘ciascuno’ con un ‘suo’ –, non avrebbe senso alcun diritto. Entrambi fanno presente all’uomo l’altro, con la maiuscola o con la minuscola, mettendolo dinanzi al dramma della sua incompiutezza, che costituisce la cifra essenziale dell’umano. Entrambi ricordano all’uomo quella legge primaria della castrazione che gli serra l’accesso al desiderio incestuoso di un’autosufficienza che in realtà di umano ha poco o nulla.

La crisi

Quando, allora, si può parlare di crisi di liturgia e di diritto? Quando essi non fanno più presente l’altro e l’altro; quando abdicano alla sua irriducibilità.

Per la liturgia questo accade quando è smarrita del tutto la dimensione trascendente, a favore di un “orizzontalismo” che abdica ad ogni funzione simbolica.

Quanto al diritto, invece, esso abdica all’irriducibilità dell’altro quando smette di svolgere la sua funzione di inclusione e integrazione, diventando espressione di una sorta di solipsismo politico. È del resto quello che Benedetto XVI denunciava, tra altre cose, nel suo bellissimo discorso al Reichstag di Berlino, nel 2011: «È evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta».

D’altra parte, il solo principio maggioritario aveva portato al dramma che sia Benedetto XVI che parlava, che il Reichstag che ascoltava, avevano bene in mente: «Il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto».

E in questo nostro tempo, rischiato di togliere di mezzo l’Altro con la crisi della liturgia, e rischiato di togliere di mezzo l’altro con la crisi del diritto, cosa resta? Non convince più tanto la voce di chi ci dice che il vuoto lasciato dall’Altro e dall’altro sia stato riempito dal narcisismo – una sorta di egolatria. Uno sguardo meno superficiale, infatti, coglie presto che il narcisismo pure ostentato è solo il velo ad un mortale disagio con se stessi, in diverse declinazioni. Quello del nostro tempo è il narcisismo di un innamorato di se stesso che però non è ricambiato. Né l’altro, né l’altro, né se stessi, in realtà. Solo una invasata danza sul vuoto. E Benedetto XVI aveva cominciato ad esserne spaventato da tempo.

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