La “fase 4” del Marvel Cinematic Universe – l’insieme di serie e film tratti dai fumetti Marvel, le cui trame e personaggi si incrociano e si allineano a formare una grande narrazione coerente (coerente per delle storie di supereroi, certo) – è quella che segue la grande battaglia contro Thanos, il supercattivo che aveva fatto sparire metà della vita nell’universo con uno schiocco di dita: gli Avengers lo sconfiggono e riportano in vita tutti. Trionfo (soprattutto al botteghino). Fine della “fase 3”. Bene.

La fase 4 (perché c’è un pubblico da soddisfare – tra cui chi scrive – e degli azionisti da sfamare, mica ci si può fermare), dicevo, si sviluppa, almeno finora, soprattutto attraverso miniserie televisive: le prime sono state WandaVision, The Falcon and the Winter Soldier, Loki e Hawkeye.

Sono tutte disponibili su Disney+ e sono tutte, detto per inciso, piuttosto gradevoli, soprattutto la prima e le ultime due. Ma non è questo il punto. Il punto è: cosa le accomuna? Se si scosta appena un poco la cortina di storie rutilanti e avventurose, di misteri e effetti speciali, ci si accorge che sono tutte storie di elaborazione del trauma.

Falcon, Soldato d’inverno, Hawkeye sono guerrieri sofferenti di Sindrome da stress post-traumatico, incapaci in vario modo di fare i conti con la pace. Wanda, protagonista di WandaVision, si è rinchiusa in una realtà illusoria (e metatelevisiva) messa in piedi per sfuggire al dolore per la morte dei figli e del marito. In Loki, il protagonista, il dio norreno dell’inganno, viene letteralmente costretto a fare terapia guardando e riguardando gli errori che ha commesso in passato! 

Non è solo la più elaborata e potente macchina ideologico-narrativa dei nostri tempi a mettere il trauma al centro delle proprie storie. Prendiamo due prodotti italiani a caso, e di grande successo, delle ultimi settimane.

Strappare lungo i bordi, la bella serie Netflix di e da Zerocalcare, non è solo la storia di un lutto non elaborato (il suicidio di un’amica) al punto da pesare, come un trauma rimosso, sulla vita del protagonista, ma si apre con il grande trauma collettivo della sua (e mia) generazione: i fatti di Genova del 2001, il tradimento e la violenza dello stato, la fine di “un altro mondo possibile”, la fine del futuro e la quotidiana esposizione alla violenza della precarietà e delle poche prospettive.

Un tragico lutto e la sua elaborazione, conquistata qui attraverso la vocazione cinematografica, è al centro della storia di formazione di Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio

Ajak (Salma Hayek) in Marvel Studios' ETERNALS (2021). Photo credit: Marvel Studios / The Hollywood Archive

Un trauma come tanti

Ma è forse nella letteratura che la “trama del trauma” ha la sua fortuna maggiore: Una vita come tante di Hanya Yanagihara sottopone il suo protagonista a una tale sequenza di sfighe, torture, lutti e traumi vari che molti l’hanno classificato tra il torture-porn e la fan fiction.

La critica culturale Andrea Long Chu sulla rivista Vulture scrive di «sindrome di Munchausen per procura»: così come il genitore o il caregiver che soffre della Munchausen per procura simula una malattia nella persona di cui si prende cura, così Yanagihara si accanisce sui suoi personaggi omosessuali.

Del resto l’hurt/comfort (ferisci/conforta) è proprio un genere codificato delle fanfic (abbreviazione per fan fiction: racconti apocrifi e alternativi scritti dagli appassionati usando personaggi famosi. A volte, ma non sempre, immaginando trame romantiche, erotiche, magari in chiave omoerotica, taciute nelle versioni ufficiali. Ad esempio Cinquanta sfumature di grigio nasce come fan fiction erotica dei romanzi di vampiri della serie Twilight). 

Non si può capire il successo di tanta letteratura di testimonianza, del memoir, dell’autofiction (le forme dominanti della literary fiction attuale) senza riconoscervi l’ombra, più o meno opprimente, del trauma. Può essere come nei testi del più grande scrittore degli ultimi anni, W. G. Sebald: il passato traumatico, oscuro, depressivo, inconoscibile preme sulle vite di tutti i suoi personaggi, altera le loro orbite come un buco nero devia le stelle che vi ruotano attorno.

Per Austerlitz, il protagonista del romanzo omonimo, è il rimosso, che lentamente emerge, dell’infanzia nella Germania nazista. Ma dalle vette sebaldiane si può scendere alle più mondane biografie di personaggi famosi, con tanto di episodio traumatico che ha segnato la loro vita e che dona loro le tanto agognate stigmate di autenticità. 

Trauma su misura

La cosa interessante è che non è sempre stato così. Come ricorda la critica Parul Sehgal sul New Yorker, i personaggi di Jane Austen, Tolstoj o Dickens non erano mossi (non erano «agiti» direbbe la psicanalisi) da un trauma, non era qualche segreto nel loro passato a farli decidere o parlare. Né, del resto, avevano un passato sempre così, mi si passi il bisticcio, “presente”.

Quello che del loro passato veniva raccontato era funzionale alla trama o al disegno del personaggio stesso. Non era l’orizzonte entro cui si definiva tutta la loro identità. Quanta strada per arrivare alla Sylvia Plath di Lady Lazarus che scrive a proposito delle ferite dei tentati suicidi: «La folla sgranocchiante noccioline / si accalca per vedere / che mi sbendano mano e piede / il grande spogliarello».

Cosa ha reso il trauma un dispositivo narrativo così diffuso e potente? Da una parte, certo, c’è l’idea che la vita moderna sia di per sé traumatizzante: lo è la città industriale e post industriale, piena di rumori, persone, incontri. Lo sono i mezzi di trasporto, dai treni agli aerei, che portano in sé l’idea stessa di incidente, di disastro. Lo è guerra. Quella probabilmente lo è sempre stata, traumatizzante: ma è dalle trincee della Prima guerra mondiale che esce anche il concetto di disturbo da stress post-traumatico. 

Il DSM-III, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, nel 1980 definiva il trauma un evento «al di fuori della gamma della normale esperienza umana», nelle edizioni successive la definizione si allargata fino a includere «tutto ciò che il corpo percepisce come troppo, troppo velocemente o troppo presto».

Secondo alcuni calcoli ci sono 636.120 possibili combinazioni di sintomi che possono essere attribuite al disturbo da stress post-traumatico, che è come dire che seicentomila persone con sintomi diversi possono ricadere nella stessa diagnosi.

La chiave universale

Nessuna come la nostra epoca è stata ossessionata al racconto della vittima: e il trauma fornisce il patentino per accedere a questa narrazione diffusa. Se nel secondo dopoguerra il trauma e i testimoni che lo raccontavano erano evidenti, man mano che ci si allontana da quegli eventi il trauma si personalizza, si fa via via più soggettivo e “su misura”.

Nel XXI secolo, e ancora di più con l’avvento dei social, diventa evidente: siamo tutti legittimati a parlare e raccontarci, a mostrarci e a chiedere riconoscimento in quanto traumatizzati da qualcosa, in quanto vittime – a volte reali a volte immaginarie. La forza della narrativa del trauma è che, spesso, è infalsificabile, cioè la si può invocare sia quando il trauma c’è e si conosce, sia quando non c’è, non lo vediamo perché, ti dicono, lo stai rimuovendo. 

La narrazione del trauma è rassicurante: non solo perché mette in scena l’idea di una pace raggiunta, dell’equilibrio conquistato, del passaggio dal caos del non sapere all’ordine della consapevolezza. È rassicurante soprattutto perché presuppone che questo movimento sia proprio possibile e a disposizione del lettore: sono storie che mettono nelle mani di chi le fruisce il potere di “portare alla luce”, di disseppellire il non detto, come psicanalisti onnipotenti, come se esistesse una chiave universale per aprire lo scrigno in cui è contenuto il senso della vita. 

Per un buon uso del trauma

Ma ovviamente non esiste, questa chiave universale. Perché non solo le persone sono più complesse dei loro traumi. Lo sono anche i personaggi di finzione. Il trauma schiaccia i personaggi sui loro sintomi. A differenza delle “trame del matrimonio”, quelle basate sul trauma sono più interessate al passato che al futuro: la domanda che le muove non è “riusciranno i nostri eroi a sposarsi?”, ma “qual è la sua ferita?", “quale episodio del passato l’ha reso così?”. 

Dispositivo potentissimo quindi, da maneggiare con cautela. Quale equilibrio trovare, ad esempio, tra un uso, diciamo così, identitario del trauma, spendibile perché trova facile circolazione nella comunicazione di oggi, e la necessità politica di dare ascolto a sofferenze fino a ora tenute subalterne?

Eppure la trama del trauma appare oggi tanto diffusa nelle sue versioni più semplificatorie e accessibili, quanto decisiva adesso che un trauma collettivo e individuale lo stiamo attraversando sul serio. Nonostante ci si dia tanto da fare per rimuoverlo.

Ora che non possiamo davvero più dire di essere Senza trauma (per citare il titolo di un libro di Daniele Giglioli di qualche anno fa su «scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio») abbiamo bisogno più che mai di chi sappia raccontarcelo, articolarlo: di chi sappia dargli parola. E trovare, in tutta la sua paradossale, vertiginosa complessità, il futuro che il trauma non chiude, ma apre. 

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