Il nome è evocativo: «Parco della Resistenza». Grandi alberi, un gazebo per le feste, qualche panchina all’ombra. E in mezzo una scuola dell’infanzia. Un po’ di verde in un quartiere tutto cemento, stretto tra due tangenziali e la ferrovia nella zona sud-est di Brescia. Nei rapporti dell’Istituto Superiore di Sanità però ha un nome più asettico: «Parco via Livorno».

Accanto, tra mappe e tabelle a colori, è riportato l’elenco degli inquinanti fuori norma trovati nel terreno: «Arsenico, cadmio, mercurio, piombo, rame, zinco, idrocarburi, Pcb e diossine». È solo uno dei cinque parchi contaminati nella zona a sud della Caffaro, la fabbrica chimica che produceva i cancerogeni Pcb e che ha inquinato per decenni la falda, i terreni e le rogge. Non solo con il Pcb, ma anche con il mercurio, il tetracloruro di carbonio e il cromo esavalente. E con le diossine, un velenoso «effetto collaterale» della produzione di policlorobifenili, che appartengono alla stessa famiglia.

«RISCHIO NON ACCETTABILE»

Foto di Andrea Tornago

Nel febbraio del 2020 l’Istituto superiore di sanità ha concluso un’analisi di rischio su quei parchi ancora oggi aperti al pubblico: l’esposizione alle diossine contenute nei primi dieci centimetri del terreno - scrive l’istituto - costituisce un «rischio non accettabile» per adulti e bambini «sia per effetti cancerogeni che per quelli tossici».

In quella lista nera ci sono anche i parchi di via Fura, via Palermo, via Cacciamali e via Parenzo. Aree verdi in quartieri popolosi dove vivono circa 25 mila persone. E in cui le diossine, veleni formidabili che per la loro tossicità sono valutate in miliardesimi di grammo, si contano in chilogrammi.

Lo studio ha valutato tutte le vie di contaminazione possibili, sia «i percorsi diretti, quali l’ingestione di suolo e il contatto dermico», sia quelli indiretti come «la volatilizzazione, l’inalazione di polveri» e la migrazione «verso la falda acquifera sotterranea». Attestando la «non accettabilità del rischio» in tutti i parchi per i bambini, e in quattro parchi su cinque per gli adulti.

L’ORDINANZA SUI «PRATI INERBITI»

Il Comune di Brescia però, ricevuto lo studio dell’Iss, ha continuato ugualmente a reiterare un’ordinanza contestata dai comitati e dagli ambientalisti: a partire dal 2013 la giunta guidata da Emilio Del Bono (Pd) consente l’accesso ai parchi inquinati, a patto che si tratti di «zone ed aree in cui il terreno sia inerbito o pavimentato».

Se c’è l’erba, insomma, si può giocare. Ma con il «divieto di scavo e asportazione del terreno». Disposizioni difficili da far rispettare in particolare ai più piccoli, secondo quanto denunciano i comitati bresciani.

Nelle foto che pubblichiamo, si vedono alcuni bambini giocare addirittura nella roggia che delimita uno dei parchi, considerata uno dei veicoli dei veleni chimici fuoriusciti dallo scarico della Caffaro. A contatto diretto con il sedime del canale, carico di inquinanti.

Già nell’ottobre del 2013 Medicina Democratica e alcuni comitati ambientalisti avevano chiesto l’immediata revoca dell’ordinanza, che avrebbe esposto «in particolare i bambini a rischi inaccettabili per la salute», e sollecitato un’analisi di rischio specifica.

Il ministero dell’Ambiente il 26 novembre 2013 aveva risposto invitando il Comune di Brescia «a rivalutarne i contenuti ai sensi della normativa vigente».

IL COMUNE: «NESSUN RISCHIO»

Foto di Andrea Tornago

L’Asl di Brescia, oggi Ats, alcuni mesi dopo inviava una nota per ribadire la bontà dell’ordinanza, a cui chiedeva di aggiungere una semplice frase per giustificare la scelta dei limiti per le sostanze inquinanti: «Assunti quali riferimento sulla base delle evidenze analitiche e degli studi sanitari condotti dal Asl di Brescia e da Iss». Quali studi? Non è dato sapere.

Ora lo stesso Iss sancisce la «non accettabilità del rischio», anche se conclude con una frase sibillina: «Si conferma l’opportunità di mantenere attiva l’ordinanza emessa dal Comune di Brescia». Che cosa significa? Anche per l’Iss il rischio è dunque «accettabile» se il prato in cui giocano i bambini è «inerbito»?

Così interpreta le conclusioni dell’istituto Miriam Cominelli, assessore all’ambiente del Comune di Brescia, già deputata del Pd e membro della commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti per cui ha curato proprio la relazione sulla Caffaro: «L’Istituto superiore di sanità dice chiaramente che i parchi così come sono fruiti, seguendo l’ordinanza del sindaco, non creano problemi alla salute dei cittadini. Abbiamo già bonificato il due scuole, il parco Parenzo Sud-Ovest e adesso sono in corso a Parenzo Sud-Est e partiranno a breve per gli altri parchi».

L’Iss, contattato da Domani, invece non si sbilancia: «Non possiamo commentare scelte politiche». Informalmente però, fanno sapere che «l’Istituto non è mai entrato nella questione del manto erboso».

500 KG DI DIOSSINE

Il disastro provocato dalla Caffaro non ha eguali nel mondo industrializzato. Si stima che la quantità di diossina complessivamente finita nei terreni del sito inquinato di interesse nazionale «Brescia Caffaro» sia venti volte superiore a quella di Seveso, il più grave incidente chimico italiano provocato dall’esplosione del reattore della fabbrica chimica Icmesa nel 1976. Secondo l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa), nei terreni di Brescia sarebbero presenti almeno 500 kg di diossine, ovvero 500 mila miliardi di nanogrammi, mentre a Seveso secondo le stime più cautelative ne sarebbero fuoriuscite circa 30 kg.

Parchi pubblici e giardini privati a Brescia attendono da vent’anni una bonifica, costosa e tecnicamente difficile da realizzare, perché il terreno è contaminato in profondità.

Secondo i calcoli dell’Arpa Lombardia, andrebbero rimossi 3 milioni e 170 mila metri cubi di terra inquinata in una zona ad alta urbanizzazione. Oltre alle diossine, nel suolo a valle dello stabilimento chimico della Caffaro sono presenti anche circa 5 tonnellate di Pcb.

I GIARDINI PRIVATI

Tra le aree verdi con alte concentrazioni di diossine e Pcb ci sono alcuni giardini privati a sud della Caffaro, che occupano una superficie complessiva di circa 100 mila metri quadrati, in cui il contatto con il terreno, a differenza dei parchi pubblici, è molto più stretto e protratto nel tempo. «Inspiegabilmente - denuncia Marino Ruzzenenti, storico dell’ambiente che ha sollevato il caso Caffaro con il suo libro all’inizio degli anni 2000 - il commissario straordinario ha deciso di non procedere alla bonifica di questi giardini nelle abitazioni private, nonostante siano contaminati da diossine oltre i limiti per l’uso industriale e commerciale, con livelli di tossicità sovrapponibili a quelli della zona A di Seveso, all’epoca evacuata».

I proprietari delle case, del tutto incolpevoli rispetto all’inquinamento, sono stati «dimenticati dalle istituzioni - continua Ruzzenenti - e i fondi per la bonifica dei giardini sono stati dirottati su un intervento di bonifica di un campo di atletica di proprietà del Comune.

Il costo dell’intervento su questi giardini è davvero poca cosa, circa 1,5 milioni di euro rispetto ai 700 stimati per l’intero sito inquinato di interesse nazionale. Ma il tema delle aree private in cui vive la popolazione, tra giardini e orti, sembra del tutto rimosso».

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