Acquacoltura coloniale: i nostri allevamenti impoveriscono l’Africa

Gli allevamenti in mare di acquacoltura si riconoscono come dei grandi cerchi concentrici che galleggiano sulla superficie dell’acqua. Una versione marina dei cerchi nel grano per capirsi. Sotto l’acqua si nasconde però un sistema di gabbie che racchiude centinaia di migliaia di orate, spigole, ricciole, e anche salmoni. Sono lì per essere allevate, vendute e consumate. L’acquacoltura è il settore alimentare in maggior crescita al mondo e viene presentato come una soluzione all’insicurezza alimentare. Ma organizzazioni come Greenpeace sostengono che questa sia una narrativa portata avanti dall’industria, che cela i reali effetti sull’ecosistema. Il report dell’organizzazione FoodRise Conquista dell’oceano pubblicato a giugno, e presentato durante le giornate della Conferenza delle Nazioni unite sull’oceano, getta luce sulla catena industriale dietro questi allevamenti nel Mediterraneo. Quando il mare brucia: il tracollo termico degli oceani del 2023 Gli impatti diretti L’acquacoltura ha un effetto diretto sull’ecosistema che la circonda a causa delle grandi quantità di deiezioni, antibiotici (e anche carcasse di pesci morti), che faticano a diluirsi nella corrente. I detriti si depositano poi sul fondale mettendo a rischio per esempio la posidonia nel Mediterraneo, già a rischio di estinzione. Ma gli effetti ricadono anche sull’industria del turismo: in quelle aree è impensabile fare snorkeling o passarci in barca. Eppure non molti sanno che – secondo i dati dell’Osservatorio europeo sui mercati dell’acquacoltura (EUMOFA) – c’è il 95 per cento di possibilità che le spigole o le orate che tanto amiamo mangiare, provengano da un tipo di allevamento del genere. La crisi climatica vista dagli oceani. A Nizza è iniziato il viaggio verso Cop30 Colonizzazione 2.0 C’è poi un altro tipo di impatto, meno visibile e perciò meno noto. Alle spigole, alle orate e ai salmoni che vivono negli allevamenti intensivi, viene dato in pasto il cosiddetto fishmeal and fish oil (FMFO). In altre parole, un concime composto da altri pesci più piccoli come sardine e sgombri, e un’aggiunta di proteine spesso ricavate dalla soia. Questo pescato-concime non è nostrano ma, come messo in luce dal report di FoodRise, proviene dall’Africa occidentale. Oltre il 40 per cento degli stock ittici in quella zona è già sovrasfruttato o esaurito e la scelta di attingere a quelle coste per dar da mangiare ai nostri pesci più grandi porta con sé grandi ripercussioni per le comunità locali, d’improvviso lasciate senza cibo, lavoro e sicurezza alimentare. È il caso del Senegal. Lì il 17 per cento della popolazione attiva lavora nel settore della pesca. Da quando è aumentata la richiesta di FMFO da parte delle industrie di acquacoltura, diverse società miste si sono stabilizzate sulle coste africane. Queste, con capitali europei, possono permettersi di pagare una cassa di pesce anche il doppio del prezzo a cui veniva venduto qualche anno fa, per esportarlo in Europa, escludendo dal mercato le commercianti di pesce, donne impegnate finora in attività tradizionali di essiccamento e salatura. Molte sono rimaste disoccupate, o hanno lasciato il paese. «Difendere il mare significa difendere la vita di milioni di donne che lavorano nell’industria ittica. I nostri villaggi sono decimati, se non c’è pesce non c’è lavoro e le persone se ne vanno» dice Diaba Diop, che viene dal Senegal e fa parte della rete delle donne nella pesca artigianale (REFEPAS). Secondo un’inchiesta condotta da The Guardian e DeSmog sulla catena tra Senegal, Turchia e Uk, in cui piccoli pesci vengono pescati come concime per i pesci in allevamenti di acquacoltura più lontani e poi venduti al resto d’Europa, il governo senegalese offre incentivi finanziari alle aziende che esportano oltre l’80 per cento dei propri prodotti o servizi. L’acquacoltura infatti gode ancora di grande reputazione. Dal 2001 l’Europa ha stanziato 2,89 miliardi di euro per gli allevamenti e sono stati rinnovati fino al 2027. «È scioccante che l’Unione europea e i governi stanno attivamente supportando e promuovendo allevamenti intensivi così altamente distruttivi. Questa non è sicurezza alimentare. È un furto prendere il pesce a chi ha fame per alimentare un’industria di export nociva» ha detto Fay Orfanidou di Aktaia, un’organizzazione di cittadini e esperti che si batte contro l’industria dell'acquacoltura nella penisola ellenica. Se è vero che questi allevamenti possono fornire settimanalmente porzioni di 200gr di pesce per circa 33 milioni di persone, è anche vero che questo è possibile solo grazie all’utilizzo di pesci molto più piccoli come mangime per quelli allevati. È stato stimato da FoodRise che se mangiassimo pesce selvatico come sardine, aringhe, merluzzi, invece di darlo in pasto agli “allevamenti acquatici”, più di un quarto in più di persone potrebbero avere accesso ai 200 gr di porzione di pesce settimanale, e più di 300mila tonnellate di pesce rimarrebbero in mare. Saranno gli oceani e i fiumi a salvare l’Africa: ecco tutti i miliardi dell’economia blu Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del programma di fellowship Unoc 2025 organizzato dall’Earth Journalism Network di Internews.