Negli ultimi quarant’anni le conoscenze sull’albero hanno fatto grandi progressi, che però, pubblicati in riviste scientifiche per la maggior parte sconosciute al pubblico, sono rimasti accessibili solo agli specialisti.

È ora di ammettere che l’albero non è appannaggio esclusivo di nessuno, che merita di essere riconosciuto come patrimonio comune dell’umanità tutta e che il sapere intorno a esso dev’essere collettivo. Obiettivo principale di quest’opera: rendere note le nuove acquisizioni scientifiche al grande pubblico. Ma che cosa ci evoca la parola “albero”?

Differenti percezioni

Di fronte a un albero, ognuno di noi vede realtà diverse, ciascuno la propria, in funzione di ciò che noi stessi siamo. Naturalmente, questo potrebbe essere detto di qualsiasi oggetto (una vertebra di balena, una boccetta di profumo, un kalashnikov), che ognuno percepisce in funzione delle sue abitudini o dei desideri del momento; ma sono dell’idea che, di fronte a un oggetto così complesso come un albero, le percezioni siano particolarmente diversificate.

Che cos’è, questa grande quercia? Per il geografo, è un segno del paesaggio, testimone di pratiche agricole ancestrali; per l’operatore forestale, un cilindro di legno “nobile”, suscettibile di venir abbattuto, tagliato a pezzi e poi venduto a un prezzo interessante.

L’informatico vi vedrà una sfida per la simulazione grafica e si metterà alla ricerca degli algoritmi più significativi. Avete tendenze mistiche? Allora questa quercia diventa un tramite tra il cielo, il mondo degli uomini e la Terra, un simbolo cosmico che dà accesso all’universale; un approccio naturalista vedrà piuttosto in essa, agghindata da un nome latino, una forma di vita notevole per longevità e ampiezza delle superfici di scambio.

Decoro urbano? Fonte di ghiande per nutrire i maiali? Semplice macchia d’ombra per il viandante in estate? Niente affatto, dice l’adepto della medicina dolce, in quest’albero circola un flusso di energia tellurica: appoggiatevi al tronco e i vostri dolori lombari ne trarranno giovamento.

Voi non capite, dice il filosofo, questa quercia è innanzitutto la materializzazione dello scorrere del tempo, insieme memoria naturale e supporto di memoria culturale, è il principio stesso della civiltà. Chiaramente ho dovuto fare delle scelte. Si capirà facilmente – vale per me come per gli altri – che gli alberi presentati qui hanno origine nella mia esperienza di botanico tropicalista.

Preservare l’alterità degli alberi

Cercherò di evitare qualsiasi antropomorfismo, quella vecchia tendenza che risale alle origini della letteratura: Esopo, Joachim du Bellay, Jean de La Fontaine, Michelet, Hugo, Tolstoj, Queneau, Brassens, tutti hanno fatto i ventriloqui per far parlare gli alberi, prestando loro una forma umana e sentimenti che ci appartengono.

Sul piano visivo, ancor più impressionante di ogni tentativo di espressione attraverso le parole, lo stesso hanno fatto Hieronymus Bosch e Gustave Doré. Senza discutere la bellezza delle opere, che siano letterarie o grafiche, io rifiuto l’antropomorfismo perché impedisce lo stupore davanti all’enigma dell’albero e proibisce dunque di penetrarne i segreti.

«Quando la letteratura si distacca dall’identificazione dell’albero con l’uomo e dalle metafore che la accompagnano, essa si accosta più da vicino alle loro rispettive differenze così come alla complessità dei loro rapporti» (Robert Dumas, Traité de l’arbre, Actes Sud, Arles 2002). Vorrei preservare l’alterità degli alberi come una delle risorse più preziose tra quelle che ci aiutano a vivere, in un mondo sommerso dall’umano.

Evitare l’antropomorfismo non significa doversi allontanare dalla complessa interfaccia costituita dalle relazioni tra gli alberi e gli esseri umani; al contrario, proprio perché credo che l’esplorazione di questa interfaccia sia il modo migliore di cogliere la singolarità degli alberi, le relazioni con i nostri cugini verdi saranno qui ampiamente discusse, in una prospettiva vicina all’etnobotanica.

A parte qualche caso particolare – baniano di Calcutta, albero di Tule –, a catturare la nostra attenzione non saranno gli “individui”, ma le specie.

L’idea di albero “individuale” rilevante è stata ampiamente sviluppata negli ultimi quindici anni; questo approccio ha avuto il merito di far conoscere ai più una serie di alberi sorprendenti, la quercia di Allouville, l’olivo di Roquebrune, il castagno dei Cento Cavalli sull’Etna, l’albero del kapok di Bimbresso, l’albero del drago di Tenerife, la sequoia Generale Sherman, il pino Matusalemme in California e il ginkgo del tempio cinese di Dinglin.

Ma l’approccio “individuale” ha anche un lato comico: le splendide foto che lo illustrano portano troppo spesso a confondere la base del tronco con l’albero intero.

Se gli alberi illustri non trovano qui molto spazio, in compenso ho ritenuto di potermi spingere piuttosto in là dal punto di vista botanico, nel desiderio di reagire contro la nostra deplorevole ignoranza in merito alle piante, a sua volta dovuta alla scomparsa degli insegnamenti di una disciplina non immediatamente redditizia. Spesso la scienza progredisce così, per conflitti tra specialisti; anche a costo, una volta tornata la pace, di costruire un’immagine più serena di se stessa.

Mi è parso interessante non attendere questa fase di consenso ufficiale e rendere conto delle controversie, se non delle vere e proprie dispute, attualmente in corso – definizione dell’albero, polimorfismo del genoma, influenza della Luna, eredità arboricola dell’essere umano. Prima di entrare nel vivo del tema, sento il bisogno di mettere in guardia il lettore di fronte a una difficoltà semantica.

A corto di parole

L’opera che avete tra le mani è fatta di parole e d’immagini, niente di originale; non è banale, in compenso, la quantità e la diversità di vincoli che questa vecchia maniera di scrivere i libri impone a chi ambisce a parlare degli alberi o delle foreste.

Poste una di seguito all’altra in una serie lineare ripiegata su se stessa come gli elementi di un radiatore, le parole convivono con le immagini su pagine dalla realtà bidimensionale tristemente evidente. Come potrebbe questo dispositivo piatto dare accesso agli alberi, la cui enorme complessità strutturale si dispiega nelle tre dimensioni dello spazio e lungo quella quarta dimensione che è il tempo?

Ma non è tutto: a questo problema di dimensioni si aggiunge un problema di parole, poiché quelle di cui disponiamo non sono adatte a descrivere gli alberi. Si pensi all’autore di romanzi i cui numerosi personaggi si amano o si odiano in un contesto urbano: in quel caso non c’è un problema di parole, la nostra lingua è fatta per lui.

Può forse essere dovuto al fatto che i nostri antenati hanno al tempo stesso abbandonato il loro modo di vivere arboricolo e adottato la pratica di un linguaggio? Qualunque sia il motivo, non disponiamo delle parole adatte che ci permetterebbero di presentare gli alberi e le foreste in modo soddisfacente. I termini botanici hanno i loro meriti, ma non sono sufficienti, perché la loro concisione tecnica non sa rendere nessuna sensualità.

Anche le immagini, fotografiche o di altro tipo, sono frustranti: nella maggior parte dei casi restituiscono solo una piccola parte del loro oggetto, o perché l’albero è troppo grande o perché, molto semplicemente, le sue radici rimangono nascoste.

So che la mia impresa di parlarvi degli alberi sarà meno convincente di una breve passeggiata in un boschetto di melaleuche o di tigli, la quale vi svelerebbe aspetti di quegli alberi che io posso solo evocare con gran fatica, tradito dalle dimensioni e a corto di parole come sono.

Mi conforta di non essere il solo a provare questa sorta d’impotenza strutturale a captare la realtà degli alberi. In proposito esistono numerose testimonianze; ho scelto quella di John Fowles, la cui tenerezza verso i nostri comuni amici è la migliore delle garanzie.

Di fronte a un’alterità così assoluta, come se la cavano scrittori e poeti? Alcuni fanno ricorso all’antropomorfismo, altri si appellano alla mitologia, alla mistica o al simbolismo. Gli scienziati, dal canto loro, si nascondono dietro una totale oggettività, fingendo d’ignorare l’abisso che separa l’approccio scientifico dall’esperienza vissuta.

Una menzione particolare merita Paul Valéry, che è riuscito nell’ardua impresa di evocare gli alberi in un modo al contempo poetico e di folgorante lucidità; ha capito ed espresso, ben prima dei botanici, i legami che uniscono gli alberi e il tempo. Valéry e il suo “Dialogo dell’albero” saranno il nostro modello in questa impresa, sebbene io sia consapevole del pericolo di un modello troppo ambizioso.

La modestia nei confronti degli alberi si impone in tutti i campi. Non inganniamoci: in un’epoca in cui trionfano le tecnoscienze, siamo del tutto incapaci di costruire un edificio che abbia le stesse proprietà tecnologiche di un albero. È forse un po’ umiliante, ma tant’è. Sottopongo alla riflessione dei lettori, a conclusione del volume, il «Capitolato d’appalto» nato da un’idea di Bernard Chanson, esperto di biomeccanica all’università di Montpellier (comunicazione personale, 1996).


L’articolo è un estratto del libro In difesa dell’albero, (Nottetempo, 2022, pagg.216, euro 25,00) di Francis Hallé, traduzione italiana di Anna Spadolini

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