Anche i biocarburanti inquinano, nel trasporto su strada l’obiettivo deve essere elettrificare

Il 7 novembre, alla vigilia della Cop30, 19 paesi, fra cui Brasile, Giappone, India e Italia, hanno sottoscritto l’impegno “Belém 4×” per quadruplicare entro il 2035 la produzione e l’uso dei combustibili “sostenibili”, derivati da biomasse e scarti agricoli. L’obiettivo sarebbe accelerare la decarbonizzazione in settori le cui emissioni di CO2 sono “hard to abate”: l’aviazione, il trasporto marittimo o l'industria pesante. Al momento coprono solo l’1,3 per cento del fabbisogno energetico globale, ma secondo l’Aie, accelerando gli investimenti, questa quota potrebbe arrivare al 10 per cento per il trasporto stradale, al 15 per cento per l’aviazione e al 35 per cento per il trasporto marittimo. Dalla Flotilla indigena la pressione sulla Cop30: fare dell’Amazzonia un santuario contro il fossile Le domande sui biocarburanti Eppure secondo un rapporto della ong Transport and Environment, la filiera dei biocarburanti derivati da biomasse emette in media il 16 per cento di anidride carbonica in più rispetto ai combustibili fossili. Un dato che mette in discussione la loro reale sostenibilità ambientale. Non solo: queste colture utilizzano 32 milioni di ettari di terreno e saliranno fino a 52 milioni di ettari entro il 2030: oggi una superficie pari a quella dell’Italia, domani maggiore di quella della Francia. Secondo il rapporto, redatto dalla società di consulenza Cerulogy, ogni giorno nelle automobili viene bruciato l’equivalente di 100 milioni di bottiglie di olio vegetale e per percorrere 100 km con biocarburanti di prima generazione servono in media 3.000 litri d’acqua. Nonostante siano promossi come più puliti, il 90 per cento della produzione globale dipende ancora da colture alimentari, in un mondo in cui oltre 730 milioni di persone soffrono la fame, i motori si mangiano circa 150 milioni di tonnellate di mais e 120 milioni di tonnellate di canna e barbabietola da zucchero. La stessa terra usata per i biocarburanti potrebbe sfamare 1,3 miliardi di persone, mentre solo il 3 per cento di essa basterebbe a produrre la stessa energia con pannelli solari. La domanda globale di biocarburanti è destinata a crescere almeno del 40 per cento entro il 2030, con espansione prevista soprattutto in Brasile, Canada e India. Per queste ragioni il rapporto di T&E invita i governi a privilegiare l’elettrificazione. David Chiaramonti del Politecnico di Torino definisce però il rapporto semplicistico: «I biocarburanti possono essere davvero sostenibili. Certo: solo se accompagnati da pratiche agronomiche corrette. Modelli come il “biogas done right”, le rotazioni triennali, le colture intermedie o fissatrici di azoto migliorano il suolo e i nutrienti, rendendo le filiere carbon neutral o addirittura carbon negative, come già previsto dalle normative europee e internazionali. Inoltre i terreni utilizzati sono spesso aridi e poco produttivi». Chiaramonti è chair della Biofuture Platform, un’iniziativa istituzionale della Clean Energy Ministerial che riunisce 23 Paesi per promuovere la bioeconomia sostenibile e sarà presente alla Cop30 per un’iniziativa sulla bioeconomia sostenibile. Una catastrofe dopo l’altra, il 40 per cento dell’umanità vive nei paesi più a rischio di eventi estremi Quale sostenibilità Come spiega Valerio Bini, geografo dell’Università Statale di Milano, bisogna vedere però, a monte, cosa si intende con sostenibile, e sostenibile per chi: «Aziende occidentali che vogliano investire in biocombustibili operando, per esempio, in Kenya possono attenersi alle norme coltivando terreni classificati come marginali e aridi, dunque non in competizione con il settore alimentare. Ma le classificazioni funzionano su larga scala, è come dire che la Sicilia è terra arida e pensare che tutta la regione sia improduttiva». «E poi – aggiunge Bini – c’è un problema più sottile: marginale e improduttivo non sono concetti assoluti. Bisogna capire improduttive rispetto a cosa, forse alle monocolture, ma quasi tutti questi terreni prima erano coltivazioni alimentari. La marginalità è un concetto coloniale, si fonda sull’idea che queste popolazioni siano in un contesto improduttivo e sterile, per cui è legittimo l’intervento esterno. Coltivare ricino su queste terre significa sottrarre alle persone la possibilità di produrre il proprio cibo, costringendole a dipendere da importazioni alimentari dal Nord globale. È un esempio di come la bioeconomia possa apparire sostenibile sulla carta, ma impattare su sicurezza alimentare e autonomia locale». Rinnovabili, nucleare e gas: benvenuti nell’era dell’elettricità. Ma il rischio è che aumenti il bisogno di petrolio Il fatto che alla Cop30 un’intesa sui biocarburanti sia fra le migliori notizie che ci si aspetta dice molto sul clima politico in cui ci troviamo e su quanto si sia abbassata l’asticella. Le bioenergie possono aiutare la decarbonizzazione nei settori in cui non ci sono alternative, come l’aviazione, non nel trasporto su strada dove l’obiettivo dev’essere elettrificare e, prima ancora di elettrificare, disincentivare l’auto privata (sempre dove possibile), puntando sul trasporto pubblico (sempre elettrico). La crisi climatica deve essere un’occasione per scardinare i modelli estrattivi e coloniali su cui si basa il nostro sistema economico e di produzione, non per replicarli. Di questo si parla quando si parla di giustizia climatica ed è questo che la Flotilla amazzonica, con 200 barche e più di 5000 attivisti indigeni a bordo, è andata a ricordare alla Cop30 di Belem.