Non solo cosa e come ma anche dove. Al benessere, la qualità del movimento non basta serve pure quella del contesto. Gli atleti lo capiscono in fretta: l’attenzione al corpo in quanto ambiente interno in cui creare i presupposti per la salute e, di conseguenza, per la prestazione non può convivere con la disattenzione verso quello esterno.

La prima volta che le istituzioni sportive affrontarono ufficialmente il tema dell’inquinamento in relazione allo sport, fu in occasione delle Olimpiadi estive di Pechino. La Cina le volle fortissimamente dopo la candidatura fallimentare per l’edizione del 2000 che finì in Australia. Remarono a suo sfavore due criticità piuttosto pesanti: la questione dei diritti umani e, appunto, il problema della salubrità dell’aria. Il Comitato promotore cinese non si rassegnò e tornò alla carica con successo, due quadrienni dopo. Se per la questione diritti umani il CIO (Comitato Olimpico Internazionale, padrone dei Giochi) non poté che fare atto di fede, per la valutazione della seconda si fece convincere da un mirabolante progetto di attenzione ambientale che, realizzato per l’evento a 5 cerchi, avrebbe poi lasciato in eredità un migliore sistema di trasporti e di controllo delle emissioni.

Le iniziative servirono ma non abbastanza tant’è che, a dieci giorni dall’evento, il livello di polveri sottili era talmente alto che il CIO intimò il Comitato organizzatore (CO) di spostare altrove le gare di endurance per preservare la salute degli atleti. Poi, coi metodi che solo la Cina conosce, fermarono le fabbriche, bloccarono le auto, provocarono piogge notturne tramite il rilascio di particelle di ioduro d'argento nelle nuvole. Magicamente il cielo sopra i Giochi brillò di blu, più o meno, ma da allora per il CIO il tema ambientale divenne fondamentale in tutte le sue sfumature, dalla sostenibilità degli eventi, alle emissioni del comparto sport, dall’influenza dell'inquinamento sulla performance, allo stile di vita.

L’Agenda 2020

Nel 2014 il CIO approvò l’Agenda 2020, un insieme di raccomandazioni per modernizzare il movimento olimpico in cui la sostenibilità occupa un ruolo centrale. Il CO francese dei recenti Giochi olimpici e paralimpici, è stato il primo ad unire gli obiettivi della Agenda 2020 (nel frattempo estesa a +5) con quelli (e non poteva essere altrimenti) dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici (2016). Nel “Report finale sui Giochi di Parigi 2024” c’è una panoramica degli strabilianti risultati ottenuti. Dati un pochino autoreferenziali, verso cui anche noi dobbiamo fare atto di fede che però, comunque sia, vanno valutati positivamente per il significato in termini di attenzione e intenzione.

Questi i principali risultati in sintesi: riduzione del 50% delle emissioni di carbonio rispetto alla media dei Giochi di Londra (2012) e Rio (2016); il 100% dell’energia utilizzata è stato prodotto con risorse rinnovabili; il 95% delle sedi delle competizioni era preesistente o temporaneo; il 100% delle attrezzature e infrastrutture dedicate al catering è stato riciclato; l’80% degli alimenti proveniva da agricoltura locale; il 60% del cibo prodotto per gli spettatori era vegan; 700 le fontane installate per ridurre le bottiglie pet monouso; 400km di nuove bike-lines; trequarti delle attrezzature specifiche sono stati noleggiati o prestati dalle federazioni sportive.

Dal risanamento della Senna sono nate 23 aree balneabili. È stata un’idea geniale rendere fruibile il fiume per farne un’area di competizione prima, da lasciare al benessere dei cittadini poi. Tuttavia ha stretto il CIO in una morsa: da una parte la coerenza con la ricaduta favorevole dell’evento olimpico sul territorio, dall’altra la tutela degli atleti obbligati a dare il meglio di sé, nel momento topico della propria carriera, in condizioni dubbie. Una sfida nella sfida che ha procurato qualche effetto collaterale ai partecipanti: rinunce, infezioni gastrointestinali, infiammazioni a pelle e occhi per alcuni e un grande malumore per tutti. Un azzardo che è sembrato stridere con la mai sufficiente cura per la salubrità dell’ambiente, per lo sport in particolare e per la vita in generale.

I progetti italiani

In Italia, ad esempio, quanti sono i campi sportivi realizzati in zone industriali, lungo le tangenziali o tra svincoli autostradali?! Sarebbe interessante farne un censimento e aggiungere il posizionamento, quale fattore di rischio, ai livelli di inquinamento già mediamente troppo elevati pressocché ovunque. Molti studi scientifici dimostrano la relazione nociva tra attività fisica e smog, sebbene risulti piuttosto ovvio che, aumentando la ventilazione, si ingigantisca la quantità di tossine introdotte attraverso pelle e polmoni. Ragione che, associata alla grande sensibilità delle giovani generazioni al tema dei cambiamenti climatici, fa si che non siano pochi gli atleti impegnati in progetti per la salvaguardia del pianeta.

Tra i vari spiccano i nomi di due stelle azzurre. Federica Brignone, campionessa di uno sci sempre più a rischio estinzione per il surriscaldamento globale, ha lanciato il progetto "Traiettorie Liquide" per la consapevolezza sul tema delle risorse idriche e l’adozione di stili di vita sostenibili. Soffre invece per il mare, sua “idea di libertà” stritolata tra catene di rifiuti, Gregorio Paltrinieri protagonista di "Dominate The Water", progetto per l’organizzazione di gare in acque libere utilizzando, per il rifornimento, materiali riciclati e biodegradabili, con assistenza all’atleta garantita da canoe o sup (standing up paddle) piuttosto che da mezzi a motore. Eventi che includono momenti formativi alternati a vere e proprie opere di pulizia.

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Per la cronaca, dopo le Olimpiadi parigine, Paltrinieri ha messo a disposizione le sue abilità natatorie facendo vacanze da eco-attivista per il recupero dei coralli attorno all’Isola di Tahiti. In un momento di totale esautorazione delle istituzioni, di greenwashing diffuso, di negazionismo anche climatico, forse è poca cosa ma consola vedere che lo sport è attivo, dal vertice alla base, dalla proattività non sempre coerente del suo establishment, al concreto buon esempio dei campioni. E colpisce che ad attivarsi sia anche il mondo professionistico, quello più vicino allo spirito del capitalismo che l’ambiente lo depreda, piuttosto che alla sensibilità ecologista.

Chissà come l’ha presa Trump, in tribuna in occasione dell’ultimo Super Bowl (la finale di football americano, evento clou negli States) quando sul palcoscenico degli spot più costosi che la società consumistica conosca è apparsa, per la prima volta, una pubblicità progresso: un messaggio in favore dell’ambiente realizzato da un’organizzazione no profit di climatologi e genitori, facendo leva sull’amore materno. La scienziata Katharine Hayhoe lo ha spiegato così: «La scienza dimostra che è l’amore il motivo principale per cui le persone si preoccupano del cambiamento climatico, soprattutto l’amore per la prossima generazione». Se però curassimo anche quello per lo sport, tutto funzionerebbe meglio, no?

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