Ieri i lavori di Cop26 hanno tirato il fiato, è stata una domenica di pausa, lo Scottish Event Center è rimasto chiuso, i negoziati sono stati lasciati a sedimentare in vista della settimana conclusiva. La deadline è fissata per il 12 novembre, ma girano voci insistenti sul fatto che si potrebbe andare a oltranza, perché le questioni aperte sono diverse, la fiducia reciproca non è abbondante ma l'obiettivo è troppo grande per fallire.

«Ci sono punti sui quali abbiamo passato tre giorni di discussioni solo per capirci, le differenze strategiche e culturali a volte sono difficili da superare», racconta una negoziatrice italiana esperta. Per gli ottimisti, la ventiseiesima conferenza sul clima ha l'obiettivo di perfezionare, migliorare e completare l'accordo di Parigi.

Per i realisti, questa Cop ha invece il compito di salvarlo da sé stesso e dalla sua fragile architettura, costruita nel 2015 per spingere la comunità dei paesi a fare una cosa difficilissima: fidarsi, fare dei sacrifici e cooperare senza ricavarne alcun vantaggio immediato se non la conservazione di un bene comune: la stabilità del clima, «condizione fondamentale della nostra prosperità», come ha ricordato David Attenborough aprendo il vertice di Glasgow.

Quando fu firmato, a Parigi si piangeva nei corridoi, si festeggiò fino al mattino, venne fatta suonare We Are The Champions, c'era il senso di aver scritto una pagina di storia dell'umanità, perché un patto globale per il clima era atteso da decenni (la Cop1 si è tenuta nel 1995, la padrona di casa era Angela Merkel, allora ministra dell'ambiente del cancelliere Kohl) e c'erano da cucire le ferite del protocollo di Kyoto, lasciato silenziosamente morire tre anni prima dopo quindici anni di fallimenti.

Qualcosa si muove

Non tutto è stato da buttare in questi anni e sarebbe da incoscienti far passare questo messaggio. Come ha scritto il climatologo Michael E. Mann, «dichiarare le Cop fallite a metà strada fa solo la gioia dei dirigenti delle aziende delle energie fossili, il cui obiettivo è gettare discredito sull'idea stessa di azione multilaterale».

L'accordo di Parigi deve essere salvato, perché ha normalizzato l'azione per il clima e l'obiettivo di azzerare le emissioni: sembrava impossibile fino a pochi anni prima e oggi è nell'orizzonte di ogni economia e grande impresa. Inoltre, ha messo la scienza al centro del processo decisionale e ha determinato una corsa all'energia pulita.

Però ha anche fallito nei suoi scopi principali: le emissioni di gas serra hanno continuato ad aumentare, gli anni tra il 2015 e il 2021 sono stati i più caldi della storia, le fonti fossili di energia sono rimaste al centro dell'economia mondiale. L'unica cosa in grado di rallentare l'aggravarsi della crisi climatica è stata la pandemia di Covid, che ha fatto calare le emissioni del 5,4 per cento secondo il rapporto The Heat is On delle Nazioni Unite, dato già quasi del tutto compensato dall'aumento del 4,9 per cento previsto entro la fine del 2021.

Qualcosa si muove, sono stati presi impegni importanti sul carbone e sul metano, i paesi stanno aggiornando i propri piani nazionali: la proiezione degli impegni presi alla Cop26 porterebbe l'aumento delle temperature a 1.8° C secondo l'Agenzia internazionale dell'energia, ma nel lontano orizzonte di fine secolo, mentre allo stato attuale delle cose i piani in discussione prevedono un aumento del 13 per cento delle emissioni nel più concreto medio termine del 2030. Infine, tutto questo è vero solo se tutti gli impegni presi alla Cop26 vengono rispettati e questa è la clausola decisiva, perché non c'è nessun meccanismo che ci permetta di esserne certi.

Name and shame

«L'accordo di Parigi è vuoto dal punto di vista contenutistico, è una procedura», spiega Valentino Piana, che fu tra i negoziatori di quel trattato per conto dei paesi vulnerabili. Stabiliva un obiettivo (contenimento dell'aumento di temperatura) e affidava ai paesi firmatari un metodo: dei piani nazionali di mitigazione delle emissioni e adattamento (Ndc, nationally determined contributions) da aggiornare ciclicamente al rialzo. Un'ambizione globale affidata a strategie locali, determinate dal contesto politico, dalla volontà e dalle possibilità. I risultati continuano a lasciare a desiderare.

Il piano sottoposto dalla Cina prima della Cop26 non è adeguato, quello australiano è vago, quello brasiliano è stato unanimemente giudicato non credibile. «Ci sono due modi di vedere la cosa: fallimento di un sistema o scenario in cui i paesi cattivi rovinano tutto», suggerisce Piana. 

Probabilmente è una sintesi tra le due: l'accordo di Parigi è costruito sulla volontarietà ed è poco attrezzato nei confronti di chi si sottrae. La pressione oggi è sulla Cina, ma gli Usa hanno scelto di uscirne con Trump senza pagare nessuna conseguenza. Invece che su un sistema di sanzioni, il compromesso scelto a Parigi fu il cosiddetto «name and shame», «indica e condanna», basato sull'idea che la pressione della comunità internazionale e dell’opinione pubblica fossero lo strumento migliore tra quelli a disposizione per spingere i paesi riottosi a cooperare.

È un meccanismo che rischia però anche di incoraggiare chi prova a godere di un risultato collettivo (la mitigazione della crisi climatica) anche se non fa la propria parte per raggiungerlo. «Il danno politico fatto dall'uscita degli Usa è stato incalcolabile», aggiunge Piana: «ha reso più debole la posizione di chi faceva la propria parte e ha aumentato la diffidenza globale».

Il libro delle regole

Inoltre c'è il problema del «libro delle regole» dell'accordo di Parigi, che dal 2015 deve essere ancora completato. Nonostante ci abbiano provato altre quattro conferenze sul clima, non ci si è ancora accordati su aspetti fondamentali: come devono essere conteggiate le emissioni, quali sono le deadline comuni per le riduzioni e come devono funzionare i mercati di carbonio sui quali si vendono le compensazioni per chi non riesce a tagliarle. Anche in questo caso, Cop26 è un'ultima chiamata.

Il fronte più delicato è la trasparenza, la qualità e l'uniformità dei dati che ogni paese riporta, un tema non secondario visto che quei conteggi sono l'unico modo per misurare il lavoro comune per evitare la catastrofe. «Senza regole di trasparenza non c'è accordo di Parigi», ha dichiarato John Kerry alla PreCop di Milano. Dato che finora queste regole di trasparenza non le abbiamo avute, è come non avessimo mai visto una versione completa di quel trattato, ogni paese ha applicato la metodologia che voleva o poteva applicare, a seconda di risorse e convenienze. È una delle questioni in vista della prossima settimana.

Le emissioni

Infine, c'è il tema più importante : quello delle emissioni storiche di CO2. Dalla rivoluzione industriale, gli esseri umani hanno pompato nell'atmosfera 2500 Giga tonnellate di CO2, esaurendo l'86 per cento del budget di carbonio, cioè della quantità che potevamo emettere senza compromettere definitivamente il clima. Il tema dell'accordo di Parigi è anche come dividerci quello che rimane, il 14 per cento di emissioni che possiamo ancora concederci prima del disastro finale.

Gli Stati Uniti oggi sono il secondo paese per emissioni ma sono al primo posto per quelle storiche, il 20 per cento del totale a disposizione dell'umanità, seguiti dalla Cina e dalla Russia. «Sbagliamo a considerare quello del carbonio come un problema di inquinamento da ridurre, quando invece è un problema di una risorsa limitata, che ora spetta in gran parte ai paesi in via di sviluppo», ha dichiarato un delegato indiano. «È il vero tema della discussione, quello che rende questa Cop26 la più politica di sempre», spiega Marirosa Iannelli, coordinatrice di Italian Climate Network. «Gli Usa e l'Europa sono cresciuti così velocemente perché hanno fondato il capitalismo sulle emissioni di fonti fossili».

Ora i paesi in via di sviluppo, guidati dalla Cina e, in questa Cop26, soprattutto dall'India, dicono: tocca a noi farlo con quello che rimane. È il nodo geopolitico di questi anni: in che proporzione dividersi queste 500 Gigatonnellate ancora disponibili.

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