Negli ultimi tre anni gli operatori forestali italiani hanno iniziato a riferirsi alla tempesta Vaia come alla «martellata di Dio». Non solo per l’efficacia dell’immagine di una divinità martellatrice che in una sera d’autunno, il 29 ottobre 2018, ha abbattuto milioni di alberi in poche ore, ma anche perché in gergo tecnico la martellata è la scelta delle piante da tagliare in un lotto.

Solo che quella sera il vento caldo di scirocco tirò giù in un colpo solo abbastanza tronchi da coprirci quasi una volta e mezzo il Lago di Garda. In Italia la crisi climatica è fatta di fenomeni incrementali, come la desertificazione di vasti territori del Sud o la sequenza di disastri locali che rendono impossibile la vita agli agricoltori, e poi di singoli episodi eclatanti.

In quest’ultima categoria, la tempesta Vaia del 2018 rimane un campione incontrastato per l’Italia. In un’area che va dalla Lombardia nord orientale alla Carnia friulana 45mila ettari di foreste vennero abbattuti da un cataclisma senza precedenti, di una forza che nel clima dei nostri genitori avrebbe potuto sprigionare solo un oceano, e che invece veniva dal Mar Mediterraneo orientale.

Lì un grado di temperatura in più aveva causato centinaia di chilometri più a nord un vento che al Passo Rolle, al confine tra il Trentino e il Veneto, toccò i 217 chilometri orari, velocità che non esiste nella memoria ecologica di questo paese e dei suoi boschi.

L’11 settembre ambientale

Ritornare a parlare di Vaia è necessario non solo per l’obbligo di celebrazione nelle ricorrenze tonde dei traumi collettivi - un’altra definizione che circola per la tempesta è «11 settembre degli alberi italiani» - e nemmeno solo perché siamo alla vigilia della Cop26 di Glasgow, il vertice sul clima, nel quale la società civile, con le sue ferite causate dalla crisi, è chiamata a fare pressione per accelerare gli sforzi politici verso lo zero di emissioni.

Podcast Vaia, capitolo 1 - La tempesta

Le voci dei testimoni raccontano la notte di Vaia, il suono di milioni di alberi che cadevano tutti insieme, la forza di un vento caldo e anomalo che raggiunse i 217 km/h, la connessione con il riscaldamento globale.

Si deve parlare di Vaia perché la tempesta è ancora in corso: la sua ferita non si è cicatrizzata, anzi, si è infettata, nel silenzio generale col quale il Triveneto sta affrontando una seconda emergenza collegata a quella di tre anni fa: l'invasione di un piccolo insetto chiamato bostrico tipografo. Il giorno dopo la tempesta l’immagine del disastro era quella di un cimitero vegetale, interi versanti in decine di valli in tutto il nord-est coperti da alberi abbattuti, un’immensa partita a Shangai in bilico sulle strade.

L’impatto del bostrico è invece in apparenza meno traumatico: grandi chiazze di abeti arrossati, nelle stesse valli di Vaia. Sono alberi secchi, già morti in piedi. Il prossimo anno toccherà a quelli accanto, in apparenza sono ancora verdi e in salute, presto saranno rossi e secchi, e così via, una «pandemia» che non prevede lockdown e che sta mettendo in grave difficoltà la già fragile economia forestale italiana.

La larva del bostrico

«Le larve del bostrico si nutrono dei tessuti legnosi che si trovano sotto la corteccia dell’abete rosso», spiega Giorgio Vacchiano, docente di gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano. «Dato che questa parte dell’albero contiene i vasi conduttori che trasportano la linfa, essenziale per il nutrimento e la vita della pianta, questa azione può essere molto dannosa e portare gli alberi attaccati a morire in breve tempo».

Capitolo 2 – L'infestazione

Tecnici ed esperti raccontano l'attacco del bostrico tipografo, l'insetto che secca gli abeti più deboli. I boschi stressati dalla tempesta e dal caldo sono un banchetto per questo coleottero. Con dati e testimonianze, si racconta come i danni del bostrico potrebbero superare quelli della notte di Vaia.

Dopo aver scelto la pianta, i maschi del bostrico forano la corteccia e scavano una «camera nuziale» dove attirano con i feromoni fino a quattro femmine alla volta. Queste scavano gallerie per deporre fino a 50 uova.

Dopo essere nate, le larve si nutrono del legno, scavando altre gallerie, creando quel disegno che ha fatto guadagnare al bostrico il suo sinistro secondo nome: tipografo. «Se la stagione vegetativa è abbastanza lunga questo meccanismo può ripetersi una seconda e, più raramente, una terza volta», aggiunge Vacchiano. In un'estate calda, quindi, il fenomeno può raddoppiare o triplicare.

Il racconto della tempesta

LaPresse

Tre anni fa, la sera della tempesta Vaia il senso più stimolato fu l’udito: il rumore del vento, quello degli alberi che cadevano, dei boschi che collassavano uno dopo l’altro, ascoltato dagli abitanti delle valli chiusi in casa da giorni. La pioggia aveva iniziato a cadere il 26 ottobre, era pericoloso stare fuori, era come se ci fosse una sorta di coprifuoco in montagna e il vento caldo del 29 è arrivato di sera: questo ha anche impedito che la tempesta facesse decine di vittime. Il bostrico tipografo invece colpisce in un tempo dilatato e soprattutto in silenzio, è un disastro dalle sensazioni sottili, difficile da fotografare e da raccontare e per questo motivo è rimasto ai margini della vita pubblica italiana, nonostante le proporzioni del disastro.

Se ne parla sulla stampa locale e specializzata, ma non è mai diventato una grande questione pubblica. «I boschi di abete rosso hanno questo verde brillante, acceso, spesso sono uniformi», racconta Giovanni Giovannini, dirigente del servizio Fauna e foreste della Provincia autonoma di Trento. «Col bostrico il verde diventa più pallido, gli aghi iniziano a impallidire e a cadere. Anche una persona non esperta, se entra in un bosco abitato dall'insetto, vede formarsi a terra un tappeto di aghi verdi. Sembra di camminare su un campo da golf, nel silenzio si può sentire il suono di aghi che cadono e formano il tappeto, mentre i boschi si spogliano».

Capitolo 3 - Il legno

Aziende, boscaioli e tecnici forestali raccontano l'impatto che la tempesta Vaia ha avuto sull'economia e sulla società delle valli del Nord-est italiano ma anche i tentativi di rinascita e ripresa del mondo forestale italiano dopo il disastro.

In seguito, la corteccia inizia a staccarsi, dalla parte alta verso il basso e quel punto c'è la conferma che l’albero è morto. L’etimologia di Vaia, il nome scelto per la tempesta dell’Istituto Meteo dell’Università di Berlino, è «grido improvviso». Il bostrico invece è quasi un bisbiglio.

Il bostrico non è una specie aliena portata nelle nostre foreste dalla globalizzazione o dal viaggio internazionale delle merci, è un insetto autoctono, che fa parte dei nostri ecosistemi, dove in teoria svolge anche una funzione ecologica, perché colpisce le piante più deboli, facendo spazio alle altre. Il problema è che l’azione combinata dei danni della tempesta sugli alberi rimasti in piedi e di estati sempre più lunghe, calde e senz’acqua, ha reso endemica la debolezza degli abeti rossi - la specie dominante nellu’Italia orientale e quella colpita dall’insetto.

Così, i boschi del dopo Vaia e della crisi climatica sono diventati una tavola imbandita per il bostrico tipografo, i cui effetti nei prossimi anni rischiano di raddoppiare quelli della martellata di Dio, una seconda catastrofe in slow motion, «long Vaia», l’ha definita il romanziere Matteo Righetto, grande conoscitore di queste terre. Non è una minaccia soltanto italiana: le larve di questo coleottero sono un problema ecologico in tutta Europa.

«A nord delle Alpi i danni sono anche più gravi, perché non sono diretta conseguenza di un evento limitato ma di una situazione diffusa di sofferenza delle piante dopo annate particolarmente calde e siccitose che hanno reso i boschi attaccabili. Si parla di oltre 100 milioni di metri cubi all'anno», spiega Cristina Salvadori, ricercatrice della Fondazione Edmund Mach, una delle massime esperte in Italia in tema di monitoraggio di questo insetto.

Prevenzione

Mauro Scrobogna /LaPresse

In questa fase, l’unico modo per far fronte all’emergenza è isolare i focolai dell’epidemia. Non si tratta solo di togliere dal bosco le piante già secche, per le quali ormai non c'è più niente da fare, ma anche quelle ancora verdi e già attaccate dall'insetto, nei dintorni dei focolai. È un lavoro da fare rapidamente, che sta mettendo a dura prova le dimensioni e le possibilità dell'economia forestale italiana, anche a causa della frammentazione della gestione.

Capitolo 4 - Il futuro

Qual è la lezione di Vaia? Come possiamo prepararci alle prossime tempeste? Come sarà il bosco del futuro e quale deve essere il suo ruolo nella società italiana? L'ultima puntata del podcast guarda in avanti, per capire l'insegnamento della tempesta.

In Italia i boschi spesso di proprietà privata, divisi attraverso i passaggi ereditari in lotti sempre più piccoli, con proprietari a volte disinteressati, a volte addirittura impossibili da rintracciare. Boschi di qualcuno che diventano boschi di nessuno. L’abete rosso, tre anni fa vittima di Vaia e oggi del bostrico, nei secoli è diventato albero dominante delle montagne italiane, immagine per antonomasia del bosco alpino e prealpino, anche oltre il suo areale, i suoi limiti ecologici. L’abete rosso è stato piantato e incoraggiato perché offriva legname di buona qualità, pregiato e più facile da vendere. Solo che nel frattempo in Italia le segherie hanno chiuso una dopo l’altra, mentre il caldo, gli insetti e il vento rendevano i boschi di abete rosso sempre più fragili. 

Alle quote più basse la soluzione contro l'epidemia è approfittare di questo disastro per ripensare i boschi del futuro, rendendoli meno omogenei, più misti e naturali. «Quello che però preoccupa di più i tecnici, oggi, è vedere focolai epidemici fino a 1900 metri, nell'ambiente dove gli abeti rossi sono naturalmente più forti, dove è più difficile pensare a specie sostitutive», conclude Salvadori. Non è un problema solo tecnico o selvicolturale, la fragilità dei boschi durante la crisi climatica rischia di cambiare completamente la faccia e l’economia delle valli alpine, mettendo a rischio - come successo dopo Vaia - tutta la loro funzione ecosistemica: assorbimento di carbonio, protezione dei versanti, potabilizzazione dell'acqua, turismo, memoria. In Italia ci si accorge delle foreste solo quando le si perde.

Gli incendi

AP Photo/Noah Berger

Questa estate un altro fenomeno ha colpito in massa i boschi italiani: è stata la peggiore stagione degli incendi dal 2008, con oltre 150mila ettari in fumo, tra Sardegna, Calabria, Sicilia, Abruzzo. Il fuoco è stato la tempesta Vaia del sud. Anche questa è una storia di clima: la siccità, lo stress idrico, le alte temperature hanno creato le condizioni per roghi che sono stati impossibili da spegnere per settimane.

La fotografia dell'ultimo inventario forestale ci dice che in Italia il bosco continua a crescere, ma è anche più fragile ed esposto ai cambiamenti climatici. I disturbi - la categoria che comprende il vento, il fuoco e gli insetti - colpiscono il 4,3 per cento della superficie forestale. C'è uno strumento del quale si parla poco ma che è decisivo per spegnere gli incendi, più importante dei Canadair che intervengono dall’alto, più importante per certi versi anche dell’acqua stessa, e sono le strade forestali, una rete oggi ancora piccola e in uno stato di manutenzione precario, perché i boschi sono tanti ma poco gestiti, soprattutto al centro e al sud l'abbandono è un fenomeno endemico.

Ma il discorso della strada vale anche su un piano simbolico: è troppo lunga quella che porta dalla società italiana - la cui vita si svolge ormai sulle coste e in pianura - alle foreste. In un territorio che sarà sempre più spesso colpito da eventi eclatanti come la tempesta Vaia, il bostrico e gli incendi, il presidio umano è la prima barriera contro gli effetti della crisi climatica. Non c'è un futuro per le aree interne italiane (più del 60 per cento del territorio, meno del 20 per cento della popolazione) se non si inverte la dinamica quasi secolare di abbandono della montagna e dell'alta collina. Gli esperimenti isolati di «riscoperta della vita nel borgo» non riescono a intaccare questo fenomeno, alla vita in montagna serve un'economia che possa slegarsi dalla monocultura turistica, a sua volta in difficoltà col riscaldamento globale che porta in media sempre meno neve, per stagioni più brevi e a quote più alte.

Riabitare l’Italia è un processo che ha valore non solo sociale, ma anche ecologico: il territorio è come una casa, se per due terzi rimane a lungo in uno stato di semi-abbandono, a un certo punto cadrà a pezzi. Siamo poi in una congiuntura particolare: dopo anni di dibattiti, entro l'anno sarà approvata la prima strategia forestale nazionale, in parallelo con quella europea. Inoltre c’è il Piano nazionale dello sviluppo rurale, ci sono le risorse del Pnrr, ci saranno gli esiti della Cop26 di Glasgow e della Cop15 di Kunming sulla biodiversità. 

«Siamo nella condizione unica di poter pensare al futuro delle foreste e disegnare le scelte che ci possono portare finalmente a una visione di lungo termine del settore tra venti anni», spiega Davide Pettenella, docente di economia forestale all'Università di Padova e coordinatore della strategia forestale nazionale. Non ci sarà più un momento utile come questo: per la società italiana uno degli strumenti chiave di adattamento climatico, alle future tempeste come al bostrico, è riportare le persone a vivere in montagna. E l’unico modo perché questo succeda è accorciare la strada e la distanza tra noi e le foreste.

Vaia - alberi, esseri umani e clima è un podcast in quattro puntate co-prodotto da Compagnia delle foreste e da Domani. È un reportage vocale dai luoghi delle tempesta, condotto da Ferdinando Cotugno e Luigi Torreggiani, anche conduttori del podcast di divulgazione forestale Ecotoni. Vaia è disponibile qui, su Spotify, Spreaker e tutte le altre piattaforme di podcast.

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