In un articolo apparso su questo giornale il 15 dicembre scorso Valeria Termini sottolinea l’esigenza di correggere il fallimento del mercato determinato dalle emissioni di CO2 con l’introduzione di una carbon tax, e mette in luce altresì i limiti dell’esperienza europea per quanto riguarda l’Emission Trading System (ETS), che grava su circa il 45 per cento delle emissioni, ma sostanzialmente si limita al settore della produzione di energia elettrica in quanto in molti settori carbon intensive vengono ancora attribuiti permessi gratuiti.

Concordo largamente con quanto sostenuto da Termini, e vorrei soltanto aggiungere qualche ulteriore considerazione su  alcuni punti particolari: la possibilità di estendere il meccanismo dei permessi di emissione ad altri settori, sulla linea di quanto deciso in Germania; la necessità di garantire che il passaggio alla produzione di energie rinnovabili non venga messa in pericolo da riduzioni competitive di prezzo da parte dei produttori di combustibili fossili; l’importanza dell’introduzione di un aggiustamento fiscale alla frontiera per garantire la competitività della produzione europea ed evitare altresì che vengano emessi permessi gratuiti ai settori carbon intensive.

Per quanto riguarda il confronto fra ETS e carbon tax, dopo la mancata approvazione nel 1992 della proposta di Direttiva per l’introduzione di una carbon tax, in Europa è stata fatta una scelta a favore dei permessi di emissione, con i limiti che Termini giustamente sottolinea (prezzi variabili al ribasso e troppi permessi gratuiti).

Per uscire da questa situazione occorrono due decisioni: in primo luogo fissare un floor price per i permessi. Un primo passo in questa direzione è stato fatto con la decisione del governo tedesco di introdurre un prezzo sul carbonio nel settore dei trasporti e del riscaldamento domestico.

Con il meccanismo adottato (upstream approach, che di fatto avvicina questo meccanismo a un’accisa tipo carbon tax) le aziende che vendono combustibili fossili sono tenute ad acquistare diritti di emissione, il cui prezzo salirà gradualmente da 25 euro per tonnellata nel 2021 a 55 euro entro il 2025, per essere poi determinato dal mercato a partire dal 2026, anche se non potrà scostarsi da un “corridoio” di prezzo fissato tra 55 e 65 euro per tonnellata.

In questo caso si ha da un lato un’estensione del sistema ETS a due nuovi settori in cui si concentrano elevati livelli di emissioni, ma soprattutto si fissa un limite inferiore al di sotto del quale il prezzo dei permessi non potrà scendere.

Per ridurre e, al limite, eliminare la concessione gratuita di permessi è fondamentale l’introduzione di un Border carbon adjustment in modo da far pagare ai prodotti importati lo stesso prezzo per l’uso di combustibili fossili pagato dai produttori europei. In questo modo si eviterà la perdita di competitività della produzione europea e il rischio di emigrazioni di produzioni verso l’esterno (i cosiddetti carbon leakages) e cadranno le giustificazione per la concessione gratuita di permessi di emissione per i settori carbon intensive.

Per quanto riguarda invece il livello di prezzo da imporre sul carbonio si è imposto ormai un consenso diffuso intorno all’idea che il prezzo iniziale debba essere pari a  50 euro per tonnellata di CO2 per salire in cinque anni a 100.

In questo senso va anche la proposta avanzata da una European Citizen Initiative, che sta attualmente raccogliendo le firme necessarie per la sua presentazione (entro il 21 gennaio 2021).

Ma fissare un prezzo anche abbastanza elevato sul carbonio è necessario – per promuovere da un lato il risparmio energetico e, d’altro lato, un fuel switching a favore delle energie rinnovabili, che richiede evidentemente anche l’eliminazione dei sussidi a favore dei combustibili fossili -, ma non sufficiente.

E se il prezzo del petrolio scende?

La scelta di un prezzo ottimale da imporre sulle emissioni di gas serra non può garantire che il prezzo finale delle fonti energetiche tradizionali per i consumatori e/o produttori sia abbastanza elevato da rendere conveniente l'uso delle fonti di energia rinnovabili in quanto una  riduzione dei prezzi dei combustibili fossili di ampie dimensioni si è manifestata più volte in passato (ad esempio, nel giugno 2014 il prezzo del petrolio raggiungeva 106 dollari al barile, ma un anno dopo precipitava a 40).

L'introduzione di un prezzo del carbonio dovrebbe quindi essere accompagnata dalla fissazione di un prezzo minimo per l'utilizzo dei combustibili tradizionali, che deve aumentare gradualmente nel tempo, e deve essere garantito anche in presenza di un calo del prezzo dei combustibili fossili sul mercato mondiale.

Nell'Unione europea questo può essere ottenuto imponendo un prezzo dei combustibili fossili sul mercato interno che garantisca la redditività nel tempo degli investimenti per le energie rinnovabili e variando il diritto compensativo riscosso alla frontiera (Border Carbon Adjustment), calcolato sulla differenza tra il prezzo del mercato mondiale e il prezzo minimo fissato sul mercato europeo.

Se l’Europa sarà capace di accompagnare la fissazione di obiettivi molto significativi - come la riduzione del 55 per cento delle emissioni entro il 2030 in vista di una neutralità carbonio nel 2050 - con l’introduzione di strumenti adeguati per raggiungerli, accompagnando la transizione ecologica con provvedimenti che garantiscano la sostenibilità sociale della manovra, potrà giocare un ruolo decisivo nella COP26 per indurre gli altri paesi, a partire dalla nuova amministrazione americana, a fissare obiettivi altrettanto ambiziosi.

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