«Alla fine forse l’errore è stato che si chiamasse bioplastica». Si lascia andare così Catia Bastioli, amministratrice delegata Novamont, nella sala riunioni della sede di Novara, centro di ricerca dell’azienda che ha cambiato l’economia circolare e che ha fatto litigare il governo italiano con la Commissione europea. Bioplastica non è il termine tecnico, il nome della famiglia di prodotti è Mater-Bi, le plastiche vegetali sviluppate negli ultimi trent’anni da Novamont, ma è sulla definizione più generica che si è annodato il dibattito pubblico e sulla quale ha discusso la politica: quella bio è plastica come le altre o eccezione ecologica da trattare come tale?

Le parole sono importanti

Le parole plasmano le percezioni: negli anni Novanta era importante sottolineare come il materiale compostabile sviluppato dall’amido di mais conservasse le preziose qualità della plastica: «Alla fine, plastica vuol dire questo, manipolabile in forme diverse». Nel corso dei decenni però la plastica da fonti fossili si è imposta come una delle principali emergenze ecologiche globali e l’associazione con la parola è diventata tossica. Il conflitto è esploso con l’entrata in vigore a luglio della direttiva Sup sulle plastiche monouso, con la messa al bando di diversi prodotti (stoviglie, cannucce, cotton fioc, aste per palloncini). Secondo le linee guida della Commissione, al momento non si può fare distinzione tra plastica e bioplastica.

Catia Bastioli, umbra, chimica, cavaliere del lavoro, ex presidente di Terna, nome circolato per il ministero della transizione ecologica, è forse l’inventrice più importante che ci sia in Italia. Trent’anni dopo il brevetto, il Mater-Bi è diventato l’epicentro dello scontro tra due modelli diversi di economia circolare. Quello europeo lo ha sintetizzato il presidente della Commissione ambiente al parlamento europeo Pascal Canfin, parlando con questo giornale: «Il problema delle bioplastiche è questo: se non riciclate correttamente, sono solo plastica, È un rischio che la Commissione non vuole correre, dobbiamo ricordarci che quella plastica in mare si comporta ecologicamente come qualsiasi plastica. Il bilancio tra i pro e i contro spinge l’Europa a trattare le bioplastiche come le altre plastiche. Non possiamo dare un assegno in bianco alle tecnologie italiane, rinunceremmo a tutti gli obiettivi di riduzione d’impatto».

In realtà, i tempi di degradazione nell’ambiente sono molto più bassi della plastica fossile (dipende dalle condizioni specifiche, ma siamo mesi contro secoli). L’idea di fondo europea però è che l’alternativa alla plastica monouso non è una «plastica» monouso più ecologica ma il riuso e una riduzione del consumo. Anche l’ambientalismo è spaccato, Greenpeace si è schierata contro, a favore ci sono il Wwf e Kyoto Club, del quale Bastioli è presidente. La questione monouso sarà risolta dalle trattative tra governo ed Europa sull’applicazione della direttiva, che Bastioli definisce «contraddittoria e scritta male, potrebbe essere senza problemi portata alla Corte di giustizia dell’Unione europea». Ma in realtà il tema va oltre piatti e posate di plastica, in ballo c’è un’intera visione delle cose.

Il materiale bioplastico è un tassello del disegno: nella visione sistemica di Novamont la produzione da fonti vegetali è, all’inizio del ciclo, un sostegno al mondo agricolo, mentre alla sua fine lo smaltimento in forma di compost organico diventa un elemento di rigenerazione dei suoli a rischio desertificazione. Questa idea di circolarità è l’elemento ideologico centrale della visione di Bastioli.

Sistema

«L’approccio della direttiva invece è stato a silos, a compartimenti stagni, vedono solo gli effetti, noi guardiamo alle cause, la nostra visione è a lungo termine». La parabola che viene sempre spesa a sostegno delle bioplastiche è la storia di successo dei sacchetti biodegradabili, considerata anche un metodo a cui ispirarsi per il «dialogo» con l’Europa: «Anche in quel caso ci hanno minacciato di infrazione, poi hanno visto che il sistema funzionava e ci hanno seguito loro». È quello che lo stesso ministro Roberto Cingolani ha proposto all’Europa sulla Sup, sfruttare il nostro modello di raccolta dell’organico (47 per cento contro il 16 per cento di media europea) come un laboratorio, invece che sopprimerlo a colpi di direttive, che rischiano di mettere in crisi un ecosistema da 280 aziende.

Il sacchetto biodegradabile entra in circolo con la spesa al supermercato e ne esce come contenitore per riciclare l’umido. È la storia più citata dagli alfieri delle bioplastiche perché ha dimostrato che un sistema chiuso di prodotti biodegradabili risponde al bisogno ecologico primario: svuotare un pianeta pieno, riducendo la quantità di materia circolante. In Italia in un decennio si è passati da 210mila tonnellate di shopper all’anno a 75mila tonnellate.

Oltre il sacchetto

La scommessa vera di Novamont è dimostrare che questo non è un episodio specifico legato a un singolo prodotto, ma può essere scalato e replicato anche in altri ambiti, sempre con un modello che parte e si chiude con l’agricoltura e il suolo. La questione bioplastica è sempre stata anche politica, sia per i rapporti tra Novamont e il sistema Italia (nasce dentro Montedison, oggi ha una joint venture con Versalis, cioè Eni), sia per quelli tra il nostro paese e l’Europa. «L’Italia non può stare zitta e buona mentre un’intera filiera rischia di chiudere», tuona Bastioli, citando (involontariamente?) il titolo del trionfo continentale dei Maneskin. «La direttiva Sup ha affrontato una fetta limitatissima del problema, hanno voluto colpire qualcosa di simbolico». Gli oggetti al bando secondo la Commissione rappresentano la gran parte dei rifiuti marini, ma per Bastioli il vero problema sono le microplastiche, sulle quali le stoviglie e i cotton fioc impattano poco. Ma il punto per lei è soprattutto un altro: «L’Italia non ha fatto l’Italia», nel senso che non è riuscita a contrastare regole e linee guida che andavano contro i suoi interessi economici, la sua competitività e il suo modello di economia circolare. «Siamo stati i primi a non capire il nostro potenziale sistemico», con riferimento ai due governi Conte sotto i quali è avvenuto lo smacco, mentre con Cingolani c’è sintonia: «È un ricercatore, ha la forma mentis per capire certe cose, l’Italia come laboratorio di innovazione». Le nuove frontiere per Novamont sono prodotti come il bioerbicida da olii vegetali in grado di sostituire i glifosati (c’è un progetto di sviluppo sulle terre del prosecco) e il mercato delle pacciamature, le coperture del suolo contro gli infestanti. Di solito sono in plastica, con perdita di materiale non organico nel suolo e grandi problemi di riciclo. Novamont le produce in bioplastica, vegetali, compostabili in suolo e compatibili con la salute della terra.

Chimiche verdi

Ci sono stati momenti in cui Novamont e Bastioli sono diventati simboli per i motivi sbagliati: la polemica sul prezzo dei sacchetti sotto il governo Gentiloni, il legame con Matteo Renzi (Bastioli presentò i suoi progetti alla Leopolda, sotto il governo Renzi fu nominata presidente di Terna). Al di là di simpatie e antipatie, di connessioni e agganci (agli ospiti, Bastioli regala la biografia di Raul Gardini), la domanda è se la chimica verde possa davvero essere un catalizzatore di cambiamento globale, se scalare la filiera della bioshopper a livello di sistema può essere un pezzo della via italiana alla transizione ecologica di cui il nostro paese ha bisogno (basta vedere, in un mondo diverso, le difficoltà dell’automotive rispetto al Green Deal).

«La nostra logica è creare economia con filiere chimiche verdi multiprodotto, basate sulle materie, sulle opportunità e anche sui problemi specifici di ogni territorio, trasformando i costi ambientali in prodotti». Tra le soluzioni recenti ci sono le etichette bio sulla frutta (di modo che siano anch’esse compostabili con la buccia) e il packaging di pasta, biscotti e snack (di solito difficili da riciclare perché multimateriale). In un’Italia che non abbonda né di idee né di modelli di riconversione industriale, almeno qui ce n’è uno.

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