Joe Biden ha scelto John Kerry come inviato speciale sul clima per tre motivi. Il primo: l'ex candidato alle presidenziali americane del 2004 ha credibilità sull'argomento. Se ne occupa da più di trent'anni, nel 1992 era nella delegazione del Senato (guidata da Al Gore) all'Earth Summit di Rio de Janeiro, il vertice che produsse la prima convenzione ONU sui cambiamenti climatici.

Ventitré anni dopo sarebbe stato uno degli architetti e il firmatario per conto degli Stati Uniti degli accordi di Parigi del 2015. Ha studiato, conosce la materia, è andato di persona nell'Artico e in Antartide. Nel 2009 aveva anche scritto una legge sulle emissioni articolata e innovativa (e mai approvata).

Secondo motivo: Kerry è un costruttore di ponti e un tessitore di tele, è un moderato nel merito e nell'approccio, sarà fondamentale per un'amministrazione che rischia di non controllare il Senato e che avrà bisogno di molto dialogo con i Repubblicani per far passare le sue politiche ambientali.

Nel 2019 Kerry ha fondato World War Zero, un'iniziativa bipartisan con l'obiettivo di generare dieci milioni di conversazioni sul clima lungo tutto l'arco politico americano. Tra i politici coinvolti c'è per esempio John Kasich, ex governatore dell'Ohio, avversario di Trump alle primarie del 2016.

C'è una componente del Partito repubblicano interessata a parlare di cambiamento climatico e lui ha gli strumenti politici per coinvolgerla.

Terzo motivo: Kerry è un consumato diplomatico, ha lavorato come Segretario di stato per Obama, è noto e rispettato in tutto il mondo, è forse la nomina di maggior peso di Biden finora, è una di quelle facce che non hanno bisogno di didascalie.

Insomma, Biden lo ha scelto anche perché tutti sanno chi è John Kerry. Il suo carisma personale sarà una leva per la prima missione che il presidente eletto gli ha affidato, propedeutica a qualsiasi altro risultato: ripristinare la credibilità internazionale degli americani, compromessa dagli anni di Trump e dalla sua decisione di uscire dagli accordi di Parigi.

Ritrovare credibilità

La domanda alla quale Kerry dovrà rispondere più spesso sarà: «Come possiamo fidarci ci voi, se poi c'è sempre un presidente repubblicano che smantella quello che il suo precedessore democratico costruisce?». Non è solo Parigi, né solo il caos di Trump: nel 2001 George W. Bush ritirò gli Stati Uniti dal Protocollo di Kyoto firmato da Bill Clinton nel 1997. A Biden serviva un testimonial per la serietà a lungo termine degli americani e Kerry era la sua miglior opzione.

Biden ha nominato un inviato internazionale per il clima prima che un omologo dedicato alle policy interne sull'ambiente, la cui designazione arriverà nel prossimo mese.

È il segno di come il presidente interpreta i cambiamenti climatici: un tema di politica estera e una minaccia alla sicurezza nazionale degli americani. Kerry farà parte anche del National Security Council ed è la prima volta che un rappresentante delle questioni climatiche potrà portare una prospettiva ambientale dentro quel contesto.

È una decisione dal valore pratico e simbolico enorme: nelle stesse riunioni in cui negli ultimi vent'anni si sono decise le reazioni post-11 settembre (comprese le kill authorization), si parlerà anche di calotte polari e riduzione delle emissioni dei gas serra.

La partita di Biden sul clima si giocherà su due piani. Uno è l'ambizioso piano di riforme nazionali: energia elettrica pulita entro il 2035, carbon neutrality entro il 2050. L'altro è assumere la leadership perduta di un progresso globale, che passa anche dalla promessa di organizzare un summit per il clima a guida americana entro i primi cento giorni di mandato.

Sono due livelli che possono funzionare solo se integrati tra loro: al mondo, per fidarsi, servirà vedere che gli Stati Uniti riescono ad agire in fretta e concretamente nel ridurre le emissioni nazionali, nel dibattito interno sarà necessario far passare l'idea che la leadership globale dell'America oggi passa dal clima. Serviva un ponte e John Kerry è quel ponte.

La sua prima mossa comunicativa è stata pubblicare sui social la foto della sua firma agli accordi di Parigi, con la nipotina in braccio. Kerry comprende la potenza simbolica di quell'immagine e gli USA rientreranno negli accordi, ma quello schema basato su adesione volontaria degli stati è ormai in procinto di essere superato. La prospettiva per i prossimi decenni è innescare una concorrenza collaborativa tra le potenze mondiali per chi condurrà la partita.

Il precedente del 2014

La nomina di Kerry come super ambasciatore per il clima conferma la linea di ritorno al multilateralismo inaugurata poco prima con Antony Blinken a segretario di Stato. Per entrambi il fronte più complesso da gestire sarà il rapporto con la Cina, seriamente compromesso dagli anni di Trump. Per quanto riguarda il clima, la sintesi migliore l'ha trovata Tim Wirth, il capo negoziatore per gli americani del Protocollo di Kyoto, parlando al New York Times: «Il rapporto con la Cina sarà la prima, la seconda e la terza cosa più importante sulla lista di Kerry dopo il rientro negli accordi di Parigi».

Anche qui, Kerry può giocare la carta della storia e della credibilità personale: uno dei suoi successi come segretario di stato fu l'accordo di cooperazione sul clima tra Usa e Cina del 2014, che aprì la strada al summit di Parigi dell'anno successivo. I cronisti che c'erano lo ricordano come una vittoria personale di Kerry, che in una maratona di una settimana seguì ogni singolo aspetto dei negoziati.

La nomina, per l'ex senatore, è il compimento di un lungo percorso: il giorno dell'elezione di Trump, nel 2016, Kerry si metteva in viaggio per l'Antartide, dove sarebbe arrivato tre giorni dopo, quando era chiaro che Trump aveva vinto e tutto il faticoso lavoro degli accordi di Parigi stava per essere smantellato. Era ancora segretario di Stato e quindi era il più importante politico americano che avesse mai messo piede al Polo Sud.

Lo scopo del viaggio era ascoltare i resoconti degli scienziati e vedere con i suoi occhi gli effetti del cambiamento climatico. Fu durante quella trasferta che si congratulò col nuovo presidente. È solo una coincidenza, ma di quelle che qualcosa significano: quattro anni dopo, Kerry riprende il suo lavoro esattamente da lì.

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