Un piccolo passo europeista che marca la differenza con i governi precedenti. L’ultimo capitolo dell’infinita querelle delle concessioni balneari prova a rimettere in gioco la direttiva europea, la famosa Bolkestein che insegue lo Stato italiano da più di dieci anni, chiedendo di rispettare la concorrenza. Vuol dire mettere a gara con bandi pubblici quegli affidamenti che invece vengono rinnovati automaticamente da chi li ha già.

L’occasione è stata la legge europea 2019, votata ieri dalla Camera dei Deputati che al termine ha accolto l’ordine del giorno, presentato da Riccardo Magi di Più Europa, che impegna il governo «a convocare un tavolo tecnico anche con gli operatori del settore per dare certezza al comparto e a definire in tempi brevi le modifiche normative necessarie a conformarsi con il diritto europeo».

Gli emendamenti, in cui si chiedeva di procedere subito alla gara, sono stati ritirati ma non sarebbero comunque passati perché le resistenze nella maggioranza, (non solo nella Lega e Forza Italia ma anche in settori del Pd e Italia Viva), restano fortissime: da sempre gli interessi delle imprese balneari sono presi in grande considerazione.

La speranza è che ora si cambi registro perché come spiega Magi sull’ultima proroga (quella fino al 2033 del governo Conte 1) si è pronunciata l’Autorità garante della concorrenza che ha chiesto l’intervento del governo ritenendo i rinnovi “ingiustificati” causando anche “un evidente danno per le finanze pubbliche”. Ma la tegola più pesante sulla maxi proroga è la lettera di messa in mora della Commissione europea inviata a dicembre, primo passo della procedura d’infrazione. Un’eventualità che potrebbe condizionare negativamente anche l’approvazione dei finanziamenti del Recovery plan nazionale riferibili agli investimenti turistici.

Un euro a stagione

L’impossibilità di adeguare i canoni è un danno non trascurabile: in media è poco più di un euro a stagione, ciò che versa allo Stato lo stabilimento balneare per occupare lo spazio del vostro ombrellone. Non va meglio per altre concessioni come le acque minerali dove le grandi marche di bibite per ogni litro pagano circa un centesimo. La sabbia e la ghiaia poi, in alcune regioni possono essere gratis.

Se le nazionalizzazioni non hanno funzionato, salvo rarissimi casi, la mano pubblica non ha fatto affari neppure con le privatizzazioni: l’erario è stato un cattivo proprietario ed è uno scarso gestore.

Le concessioni statali sono un affare solo per i privati che pagano canoni troppo spesso simbolici, e la conferma arriva dagli ultimi bilanci statali, dove gli incassi dai beni in uso ai privati raggiungono circa 670 milioni di euro a fronte di fatturati miliardari.

Gettito ma non gestione che in molti casi spetta alle regioni, con normative differenziate. Un ingranaggio infernale e, nonostante i nobili intenti, le entrate sono invariate da diversi esercizi finanziari. Dopo tante spending review circolate a Palazzo Chigi forse sarebbe arrivato il momento di una “revisione di incassi”. Intanto passerà un’altra estate con lo Stato che conta elemosine e qualcuno che guadagnerà ancora tanto.

La spiaggia per l’erario è solo sabbia, e vale poco più di 100 milioni di euro l’anno. A trasformarla in oro ci pensano le imprese balneari. I “bagni” anni Cinquanta sono un ricordo sbiadito ma in via XX settembre sembrano non essersene accorti. Come si è visto la politica da almeno un decennio, prova a riordinare le norme senza trovare una soluzione condivisa dagli operatori e vantaggiosa per le casse pubbliche.

L’infinita battaglia sulla direttiva Bolkestein è ora appesa all’ordine del giorno approvato ieri. Ma per ora resta tutto fermo mentre l’incasso per lo Stato, 104 milioni, cifra invariata da anni, i ricavi che superano i due miliardi di euro delle 7800 imprese titolari di 27 mila stabilimenti, restano garantiti.

Tutto fermo meno i prezzi, degli ombrelloni con aumenti garantiti di 2-3 per cento a stagione e non abbiamo ancora le stime del dopo pandemia.

I vertici dell’Agenzia del Demanio, che si sono succeduti negli anni (l’ultimo Antonio Agostini nominato solo un anno fa sembra anche lui in via di sostituzione) non hanno indicato obiettivi ambiziosi, limitandosi a un impegno per aumentare i controlli anti evasione.

Il nuovo governo di Mario Draghi nelle sue dichiarazioni programmatiche ha promesso una gestione più oculata e più in generale una riforma delle concessioni demaniali marittime. Nel frattempo sarebbe già meritorio un censimento, per individuare i tanti immobili fantasma.  Il recentissimo programma di geo localizzazione e digitalizzazione del patrimonio pubblico adottato dall’Agenzia sarà certamente utile per riformare il settore.

Sui canoni di concessione (la legge che li stabilisce è del 1993) delle due categorie, alta e a normale valenza turistica, viene quasi sempre applicata la tariffa più bassa. Per le aree scoperte si pagano 93 centesimi per metro quadrato, per gli impianti di facile rimozione 1,55 euro e per le strutture fisse 2.65 euro. A stagione s’intende.

Senza scomodare i bagni di Forte dei Marmi o Venezia Lido, dove una giornata al mare può costare oltre 200 euro, la redditività media per ogni metro quadrato è di 21 euro, 20 volte di più del canone. Per bar e ristoranti, la base di calcolo è maggiore ma sempre molto favorevole.

Ma è l’evasione il vero nodo, in un settore da sempre poco trasparente, sia a causa della stagionalità sia per l’inattendibilità dei ricavi dichiarati. Anche gli studi di settore dell’Agenzia delle Entrate, pur rilevando incongruenze, non hanno prodotto risultati apprezzabili.

I numeri del comparto restano sfuocati comprendendo anche le concessioni degli alberghi e dei camping. Nel complesso sono imprese per lo più piccole, 84 per cento società individuali o di persone, mentre quelle di capitali sono meno del 10 per cento.

Un’inversione di tendenza emerge per i fari dismessi e gli edifici costieri situati in zone di straordinaria bellezza, per i quali l’Agenzia del Demanio dal 2015, ha lanciato alcuni bandi. Sono 29 quelli affittati, insieme a una decina di altre strutture, con un incasso previsto di 15 milioni per i prossimi 50 anni, mentre i primi affidamenti stanno fruttando circa 760 mila euro l’anno. Non sono cifre astronomiche ma oltre a rispettare i principi della concorrenza con i bandi pubblici, si risparmia sui costi di manutenzione e con l’operazione “Valore Paese” si spera di creare investimenti diretti per 17 milioni di euro e circa 300 posti di lavoro.

Porti e banchine

LaPresse

L’altra faccia del demanio marittimo è rappresentata dagli oltre 700 porti turistici e dalle Marine. Anche qui ci si trova davanti a un ginepraio di norme e il contenzioso ha portato la direttiva Bolkestein fino alla Corte Costituzionale. Sui canoni maggiorati in maniera retroattiva con una Finanziaria di oltre dieci anni fa, i concessionari hanno vinto in parte la battaglia: legittimi gli aumenti per i soli specchi d’acqua ma non per le strutture e gli investimenti nel frattempo realizzati.

Anche le concessioni delle banchine turistiche sono affidate a Regioni e Comuni ma è lo Stato che incassa. Alcune società di gestione denunciano il rischio fallimento, anche se, in media, i canoni sono tra lo 0,8 e l’1 per cento dei ricavi, che nel caso di porti ad alta valenza turistica, possono essere molto elevati sui transiti. La media giornaliera nella stagione estiva è circa 80 euro per barche da 12/15 metri (ma a Porto Cervo o Capri si arriva anche a 500 euro) mentre per un anno la media nazionale si attesta sui 4500 euro.

Calcoli alla mano, sugli ormeggi in transito, l’Italia ha i prezzi più alti di tutti gli altri Paesi europei che si affacciano nel mediterraneo (Grecia, Francia, Spagna e Croazia). In sostanza, i guadagni sono tali da rendere conveniente l’investimento sui posti barca anche se non si è armatori.

Dopo anni di crisi, anche per alcuni interventi fiscali deleteri, il settore con la cantieristica, ora è in ripresa. Per Confindustria nautica, con 160 mila posti barca, l’Italia ha un sistema d’imprese ai primi posti in Europa: 3,2 miliardi di euro il contributo al Pil e un valore aggiunto che si avvicina ai 10 miliardi. Se il diportismo nautico funzionasse meglio, ci guadagnerebbe anche lo Stato.

Scandalo acque

©LERCARA / LAPRESSE 9-12-2003 TORINO INTERNI ACQUABOMBER , SIRINGHE USATE PER CONTAMINARE BOTTIGLIE DI ACQUA MINERALE

Le acque sono in testa alla classifica dei guadagni mancati per le concessioni svendute. Da un litro dell’aranciata che paghiamo qualche euro, l’erario (escluse le tasse) incassa poco più di un centesimo, anche se l’acqua prelevata è il 90 per cento della bibita. Dei 194 concessionari ben 170 sono privati dai quali il demanio incassa canoni irrisori. E la beffa è ancora maggiore perché l’ultimo dossier del 2017 ha il bollino del ministero dell’Economia e delle Finanze, dove è scritto nero su bianco che, a fronte di un fatturato di circa 2,7 miliardi, l’erario riceve dai concessionari solo 18 milioni di euro. Significa che per ogni euro speso in canone, il privato concessionario ne ricava 191 e che l’affitto pagato allo Stato per i prelievi dalle sorgenti, incide dello 0,79 per cento sul totale dei costi di produzione.

Basterebbe un modesto rialzo dei canoni applicati dalle Regioni e fare i controlli sui prelievi, per avere entrate onorevoli: 200 milioni di euro la stima se si arrivasse a 2 centesimi per litro. Ogni regione stabilisce il suo prezzo, composto da una quota fissa della superficie sfruttata e una variabile sulla quantità d’acqua assunta.

Solo in rarissimi casi si calcola sul fatturato, mentre i controlli sui prelievi sono inesistenti: i concessionari, quando si ricordano, si limitano a dichiarare autonomamente le quantità, sempre a forfait quasi mai d’imbottigliamento. E giusto per dare un premio a chi è attento all’ambiente, c’è anche lo sconto per chi imbottiglia in vetro, notoriamente utilizzato per le acque minerali più costose.

La parola concorrenza è sconosciuta: le concessioni delle acque minerali sono mediamente trentennali, quasi mai affidate tramite gara ma in base a una richiesta dopo le normali autorizzazioni sanitarie e con rinnovi spesso automatici. Varrebbe anche qui la disciplina comunitaria, anche se più di metà delle concessioni scadute e rinnovate dopo il 2000, hanno aggirato il regime di concorrenza e solo una è stata affidata tramite gara dalla Regione Liguria.

Analoga normativa dovrebbe regolare le acque termali che, come le minerali, dalla primaria vocazione terapeutica e sanitaria oggi alimentano gli affari di imprese turistiche e ricreative.

Con 489 affidamenti, l’Italia è il Paese europeo con più stabilimenti termali e pure in questo caso lo Stato si conferma un pessimo proprietario. Dal business del benessere e dell’health care, l’erario guadagna la misera cifra di 1,7 milioni di euro dal canone fisso di superficie, applicato da 14 regioni su 20. Rappresenta lo 0,1 per cento di un giro d’affari tra 1,5 e 2 miliardi di euro. I privati controllano il 90 per cento delle concessioni e Veneto e Campania ospitano il 57 per cento delle strutture. Anche alle terme la concorrenza non sanno cosa sia: in 99 casi su 100 è praticato l’affidamento diretto o il rinnovo automatico e, nonostante il divieto assoluto, 10 stabilimenti godono ancora di una “concessione Regia perpetua”, stipulata negli anni ’30.

Montagne svendute

FIS Alpine World Ski Championships 2021 Cortina . Cortina d'Ampezzo, Italy on February 17, 2021. Alpine Team Event, Cortina Village and Dolomites Mountain (Photo by Pierre Teyssot/ESPA-Images)(Credit Image: © ESPA Photo Agency/CSM via ZUMA Wire) (Cal Sport Media via AP Images)

Se non avete terme vicine, guadagni garantiti grazie a un altro bene dello Stato, perché in due regioni regalano la sabbia, la ghiaia e se volete anche il calcare e le pietre pregiate. Basilicata e Sardegna per le cave sul suolo pubblico non fanno pagare nulla per le concessioni, e sì che il loro territorio è ampiamente sfregiato da ruspe ed esplosivi.

Le cave sono un altro paradosso di un patrimonio concesso dalle Regioni a prezzi irrisori, pur trattandosi di materiali pregiati e ad alto valore aggiunto come le pietre ornamentali. Secondo l’ultimo dossier disponibile del 2017 di Legambiente, quelle attive erano 4752, a fronte di 14 mila dismesse e abbandonate.

Un dato importante per stimare il valore dei canoni di concessione perché lo sfruttamento di questo settore non è a costo zero con il ripristino e le bonifiche che implicano oneri pesanti per la comunità.

In Italia ogni anno si estraggono 53 milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia, 22 milioni di calcare e quasi 6 milioni di mc di pietre pregiate. Tantissimo, nonostante il calo dell’edilizia, che ha trascinato in basso l’estrazione degli inerti (il 61 per cento del comparto) mentre i materiali di pregio hanno visto negli ultimi anni risultati record.

Dai ricavi per sabbia e ghiaia che superano il miliardo di euro, lo Stato incassa poco più di 27 milioni, appena il 2,3 per cento ma lo scarto è notevole anche per le pietre pregiate. Nel bacino estrattivo di Carrara su 175 milioni di euro di ricavi, escluse le lavorazioni, ne rientrano circa 26. A Bagnolo Piemonte, dove si estrae la pregiatissima pietra di Luserna, allo Stato vanno 2 milioni a fronte di vendite per 115 milioni di euro.

Alla Sardegna la medaglia della beneficienza. Per il marmo di Orosei che ha un fatturato di oltre 150 milioni di euro, le aziende del distretto, che impiegano 500 addetti, versano nelle casse del Comune un obolo annuale di 220 mila euro. Unica consolazione la sanatoria di circa 3 milioni, pagata recentemente per il risarcimento dei danni ambientali. In quasi la metà delle regioni non esiste un piano cava o altro strumento di regolazione e gestione del settore, per la tutela del paesaggio.

Sarebbe opportuno, specialmente per gli inerti, cominciare a ridurre i prelievi di cava, privilegiando il riciclo e il recupero dei materiali da demolizione, così come accade in molti Paesi europei.

Già dal 2020 il settore delle costruzioni dovrebbe poi rispettare la direttiva comunitaria e raggiungere il traguardo del 70 per cento di recupero dei materiali inerti. Una corsa che in Italia non è neppure cominciata.

In mancanza di regole certe e diseguali tra le regioni, anche ritoccare i canoni è complicato. Eppure, se fossero adeguati a quelli oltre confine, solo per la sabbia le entrate sfiorerebbero i 170 milioni e aggiungendo marmi e travertini, il gettito per lo Stato salirebbe a oltre mezzo miliardo di euro.

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