Per un patto globale sul clima erano servite ventuno Cop, due decenni di negoziati culminati con Cop21 del 2015 e l'accordo di Parigi. Per l'equivalente sulla natura potrebbero bastarne «solo» quindici: è iniziata a Montreal Cop15, ultimo vertice dell'anno nel format conferenza delle parti Onu, forse il più importante.

Entro il 19 dicembre c'è da scrivere un accordo internazionale, cornice di regole e impegni per fermare la distruzione della biodiversità, la sesta estinzione di massa, un milione di specie a rischio di essere spazzate via in questo secolo: l'ultima volta era toccato ai dinosauri per mezzo di un asteroide. Sessantacinque milioni di anni dopo, l'asteroide siamo noi e a Montreal ci sono due settimane per costruire uno scudo credibile.

L'unica cosa che pareggia la scala del problema sono le difficoltà per arrivare a una soluzione, accentuate dall'inedita coabitazione tra Canada (paese ospitante) e Cina, titolare del negoziato ma non in grado di tenere il vertice a Kunming per le regole Covid. Dopo due anni di rinvii, si è deciso di spostare la parte finale delle trattative a Montreal.

Il ruolo della Cina

La Cop27 sul clima in Egitto è stata un'applicazione da manuale dell'ambiguità cinese in un mondo multipolare, il primo paese per emissioni che conduce ancora i negoziati come una nazione in via di sviluppo. A Sharm El-Sheikh il capo della diplomazia climatica Xie Zhenhua è stato il leader dei sommersi del mondo alla ricerca di risarcimenti, ottenuti contro le resistenze Usa e UE. Un capolavoro diplomatico giocando in difesa e nell'ombra.

Da guida del negoziato, a Cop15 la Cina deve invece esporsi e rinunciare all'invisibilità strategica: è l'occasione per capire di cosa si parla a Pechino quando si parla di protezione dell'ambiente. Il risultato o la sua assenza rifletteranno la forza nell'imporre quell'ambientalismo con caratteristiche cinesi, pilastro della visione di Xi Jinping. Dove i paesi occidentali parlano di sviluppo sostenibile, la Cina dice: civilizzazione ambientale, concetto vago e arcaico che sarà testato su problemi concreti come la creazione di aree protette su vasta scala, l'eliminazione dei sussidi dannosi, la transizione dell'agricoltura o la protezione delle popolazioni indigene. Sarà un test di credibilità: la Cina ha bisogno di intestarsi un risultato storico. Non sarà facile.  

Ecosistemi complicati

Il clima, se vogliamo, è una cosa semplice: ci sono le emissioni e c'è il riscaldamento globale. Quando parliamo di ecosistemi, invece, i pezzi del puzzle sono molti di più, e tutti devono trovare una collocazione. L'ultimo accordo di questa scala erano stati gli obiettivi di Aichi, 20 target per il decennio 2011-2020. Raggiunti: nessuno, per mancanza di consenso, volontà e fondi. L'«accordo cinese di Montreal» dovrà compensare l'eredità di quel fallimento.

Il pilastro del negoziato è la furba sintetizzazione della varietà dei guai ecosistemici dentro un numero: 30x30, portare la percentuale di aree protette al 30 per cento entro il 2030, cioè raddoppiare quelle terrestri e più che triplicare quelle marine. C'è una coalizione di paesi che ci lavora da anni (guidati da Costa Rica e Francia), sembra un obiettivo virtuoso e indiscutibile, ma una rete di Ong (tra cui Survival e Amnesty) ha denunciato il rischio che sia «il più grande furto di terra della storia», tutto ai danni delle popolazioni indigene, che sono il 6 per cento della popolazione umana ma vivono dove c'è l'80 per cento della biodiversità.

Da una prospettiva storica hanno ragione loro: la creazione di aree protette ha spesso portato violazioni di diritti umani, militarizzazione e distruzione. Sarà un bel test di equilibrio per la civilizzazione ambientale della Cina, non campioni del ramo diritti umani.

Quanto costa

Un altro tema di Cop15 è la finanza: le Cop sono sempre di più un negoziato su chi deve mettere quanti soldi a favore di chi, Montreal non farà eccezione. La protezione della natura su vasta scala ha bisogno di risorse, il target è 200 miliardi di dollari all'anno. Difficile, dal momento che sul clima la quota è la metà e non è stata ancora raggiunta.

E poi c'è il tema del debito: paesi come Kenya o Bolivia continuano a ripetere che se si è soffocati dagli interessi non si è in grado di difendere flora e fauna e chiedono cancellazioni, ristrutturazioni o formule come i debt-nature-swap, sconti sul debito in cambio di impegni ambientali. Nel frattempo, secondo l'Onu ogni anno 1000 miliardi di dollari vengono erogati in forma di sussidi pubblici ad attività che danneggiano la natura: Cop15 deve concludersi con uno sforzo per ridurli.

Tassello delicato, dal momento che sono risorse per attività primarie come pesca (17 miliardi) e agricoltura (540). È qui che si misurerà la volontà di costruire lo scudo anti-asteroide: la riforma della produzione di cibo, tema sul quale le Cop sul clima si tengono a distanza, perché non c'è ambito più difficile per la transizione. Secondo il Global Land Outlook «i sistemi alimentari sono la prima causa di perdita di biodiversità sulla terraferma».

L'accordo storico passa da una deadline ai pesticidi: nelle bozze si parla di riduzione di due terzi entro il 2030. Tra i paesi contrari ci sono India e Cina. La protezione della biodiversità va bene finché non si scontra con gli interessi produttivi di quasi mezzo miliardo di contadini cinesi. 

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