È arrivato il primo risultato significativo della Cop26 di Glasgow: ieri è stato presentato quello che sembra un trattato di pace tra gli umani e le foreste. 114 paesi che coprono l’85 per cento dei suoli forestali globali - e tra questi anche luoghi di devastazione passata e presente come Brasile, Repubblica Democratica del Congo e Indonesia - hanno annunciato l'impegno di mettere fine alla deforestazione entro il 2030.

Come ogni armistizio, saranno i dettagli (che oggi rimangono vaghi) a dirci in quale punto tra il bla bla bla e la realtà ci troviamo, ma quello annunciato ieri in Scozia è comunque un risultato storico. C'è l'Italia, ci sono gli Usa e il Canada, ci sono anche la Russia e la Cina.

Sulla salvezza degli alberi si è creato il fronte che non si riesce ancora a mettere insieme sull'abbattimento delle emissioni.

Se fosse un paese, la deforestazione sarebbe al terzo posto per le emissioni dopo Stati Uniti e Cina. Uno degli shock scientifici del 2021 è stato la scoperta che la foresta amazzonica non solo ha smesso di assorbire carbonio, ma che il tasso di degradazione e distruzione l'ha trasformata in una fonte di emissioni delle dimensioni di un paese come il Giappone.

È uno dei punti di non ritorno che ci avvicinano al collasso e per questo è uno dei temi centrali di questo vertice. Non c'è net zero né al 2050 né al 2070 se continuiamo a perdere 5 milioni di ettari a decennio (o 27 campi di calcio al minuto) come successo dal 2010 a oggi.

La natura è la soluzione?

Matthew Williams-Ellis, www.matthewwilliams-ellis.com

Siamo nel campo delle soluzioni climatiche basate sulla natura, lo stesso di una delle proposte più significative del G20: a Roma il club dei grandi inquinatori aveva però puntato su un altro numero, i mille miliardi di alberi da piantare entro il 2030, una soluzione più velleitaria, scientificamente contestata e utile come «carta esci di prigione» per assecondare la lentezza nel taglio delle emissioni.

Non a caso, i mille miliardi di alberi erano la via preferita da Trump, la sua proposta climatica quando fece uscire gli Usa dall'accordo di Parigi. L'idea partiva da una ricerca pubblicata su Science, contestata da un altro gruppo di scienziati sulla stessa rivista e da gran parte del mondo dell'ambientalismo, in parte ritrattata dallo stesso autore.

La compensazione che arriva dalla piantumazione su grande scala è importante ma non arriva nemmeno a intaccare il problema della CO2 nell’atmosfera e rischia di creare una falsa sicurezza che ai produttori di fonti fossili fa comodo, senza contare che lo spazio disponibile sulla Terra per le foreste è di 678 milioni di ettari, poco più della metà di quello che serve ai mille miliardi di alberi.

«Nello studio originario le stime di carbonio non erano corrette e si parlava di piantare alberi in savane o zone umide, dove avrebbero fatto danni. La piantumazione indiscriminata è un rischio per la biodiversità e le comunità. Quel numero non poteva mai essere preso alla lettera», spiega Giorgio Vacchiano, ricercatore forestale dell'Università di Milano.

Il problema è che il G20 lo aveva preso alla lettera. Alla Cop26, di fronte alla platea dei paesi più colpiti dalla crisi, gli stessi leader hanno infatti lasciato perdere la propaganda e presentato un più concreto e realistico piano contro la deforestazione.

Rigenerare i suoli

Il primo ministro inglese Boris Johnson e quello italiano Mario Draghi alla Cop26 (AP Photo/Alastair Grant, Pool)

Lo schema è quello sulla decarbonizzazione presentato dal premier italiano Mario Draghi in assemblea plenaria: una combinazione di fondi pubblici e privati, la forza dei miliardi come energia dell'azione climatica, allo scopo di rendere più conveniente proteggere gli ecosistemi che distruggerli per fare spazio ad agricoltura intensiva o estrazioni minerarie, dimostrando che le foreste valgono più da vive che da morte.

In questo caso il cannone finanziario forestale messo insieme alla Cop26, e presentato con la giusta enfasi del caso da Boris Johnson, prevede un totale di 19 miliardi di dollari, che andranno alla rigenerazione dei suoli danneggiati, alla lotta contro gli incendi e a sostegno delle comunità indigene, il cui ruolo di protettori è stato enfatizzato a lungo nel corso di quest'anno.

Un rapporto Fao uscito in primavera ha misurato come la gestione forestale da parte delle comunità native porti risultati migliori di ogni altro strumento di protezione: l'accordo di pace tra le grandi economie e gli ecosistemi gli ha affidato il ruolo di mediatori del processo.

A margine c’è l’impegno di 30 tra le più grandi società finanziarie (con asset da 8.700 miliardi di dollari) a fermare gli investimenti legati alla deforestazione e quello di 28 paesi a rimuoverla dalle filiere di prodotti come olio di palma, soia e cacao, ma non gli allevamenti, ed è uno dei punti problematici dell'iniziativa.

«Non si può affrontare la deforestazione senza parlare di cambio di dieta negli importatori, visto che l'80 per cento va lì», aggiunge Vacchiano. Tra i sostenitori c’è il Bezos Earth Fund del fondatore di Amazon, partecipazione che gli ha garantito un posto d'onore al fianco di Biden e la possibilità di raccontare come la vista della Terra dal suo razzo privato gli abbia cambiato le prospettive.

Il principale motivo di scetticismo sull'accordo di Glasgow per le foreste è che non è il primo a essere presentato con tanta enfasi. Nel 2014, con la New York Declaration on Forests, era stato preso un impegno simile: dimezzare la deforestazione al 2020 e azzerarla al 2030.

L’accordo di Glasgow però è diverso in un paio di punti chiave. Il primo è la sua estensione: nel 2014 Brasile, Russia e Cina non firmarono, in totale c'erano solo 37 paesi. In più non c'era la disponibilità finanziaria messa insieme alla Cop26. La scommessa - da verificare sul campo - è che il consenso che si è creato intorno al tema e la massa di fondi possano essere la struttura e la forza di questo progetto.

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