La macchina dei negoziati sul clima è partita, con l’obiettivo di salvare il clima e anche un po’ sé stessa.

La Cop26 di Glasgow è l’ultima chiamata per questo modello di governance, fatto di grandi conferenze cicliche che producono lenti, piccoli miglioramenti incrementali, con la politica delle correzioni di rotta raccontate come nuovi modelli di sviluppo.

Una risposta ce l’ha data la celebrazione dei risultati del G20, dove i paesi responsabili per l’80 per cento delle emissioni hanno finalmente riconosciuto l’obiettivo unico del contenimento per l’aumento delle temperature a 1,5° C, archiviando l’ambiguità dell’accordo di Parigi, che ballava tra 1,5° C e 2° C.

Sapevamo già da quattro anni che quella fosse l’unica soglia ragionevole per il futuro dell’umanità, grazie a un dettagliato report Ipcc del 2018, quattro anni di tempo che non avevamo e che abbiamo sprecato: questa lentezza si combina molto male con l’accelerazione della crisi climatica.

Continuiamo però a fare tanto affidamento sul ciclo di conferenze Onu sul clima, G20 e G7, perché non c’è nemmeno tempo per sviluppare un modello alternativo. Secondo la climatologia abbiamo nove anni per indirizzare la rotta.

Non si può contemporaneamente cambiare l’architettura globale e stabilizzare il clima, bisogna per forza procedere su questa strada, nella speranza che funzioni e che «Dio protegga il pianeta», come ha detto Joe Biden in chiusura del suo intervento.

La fragilità del modello Cop nel primo giorno di lavori a Glasgow è stata sperimentata lungo il suo punto di rottura più noto: la faglia che separa l’ovest dall’est, la leadership europea e americana contro le grandi economie emergenti, che rivendicano il diritto a usare le fonti fossili per un tempo più lungo, dal momento che hanno iniziato storicamente più tardi e che le emissioni pro capite sono più basse.

Xi Jinping non si è presentato a Glasgow, la sua assenza era messa in conto da tempo, ma alla Cop26 non ha partecipato nemmeno in video: il suo unico contributo è stato un testo scritto che non presentava nessun nuovo impegno: se non un sabotaggio esplicito, almeno uno schiaffo alla solennità con cui era stato atteso l’evento.

Assente anche Putin, la cui timeline di transizione ecologica non è molto diversa da quella cinese. Presente invece il premier indiano Narendra Modi, che ha presentato impegni concreti e validi al 2030, ma ha messo il suo orizzonte di neutralità nel lontanissimo 2070, una data vistosamente lontana dagli obiettivi della Cop26 e del G20.

Il primo giorno

AP Photo/Alastair Grant, Pool

Il primo giorno di lavori per la Cop26 era il momento dei capi di stato e di governo, l’assemblea plenaria con i discorsi da consegnare la storia, il momento per l’indirizzo politico e la visione da affidare ai negoziatori per due settimane che si preannunciano durissime.

Boris Johnson ha inaugurato il più importante appuntamento per il Regno Unito post-Brexit con la sua qualità più evidente: l’intrattenimento. Ha citato James Bond con la sua capacità di disinnescare ordigni («anche se nessuno di noi ha il suo fisico»), ha lanciato uno degli slogan climatici più efficaci dell’anno («defuse the bomb», appunto) e ha mostrato quanto gli stia disperatamente a cuore la riuscita dell’evento, per il futuro dell’umanità ma anche per la reputazione ammaccata della Global Britain.

Biden ha confermato la sua piattaforma politica: la transizione ecologica conviene, è lavoro, crea lavori ben pagati, ha parlato di scuolabus a idrogeno e cattura di carbonio, ha dato la sua lettura alla crisi energetica (è una chiamata all’azione, non un motivo per non agire) e ha invitato i paesi della Cop26 a partecipare alla sua iniziativa per contrastare le emissioni di metano, gas più climalterante della CO2 ma dalla durata più breve in atmosfera.

Hanno già aderito in 80: mancano però i principali emettitori di questo gas, Cina, Brasile, Russia, i tre grandi assenti del vertice.

L’ultima possibilità

Mario Draghi ha ringraziato i giovani per aver messo il clima in cima all’agenda per il clima, poi ha scelto di lavorare sul terreno che gli è più familiare: la finanza.

Non ha consegnato alla storia il suo whatever it takes climatico, ma ha pronunciato un’altra frase importante e non troppo diversa: «I soldi non sono un problema», i fondi per la transizione globale ci sono, vanno solo usati bene. L’agenda Draghi per il clima globale sono le partnership tra pubblico e privato, per trasformare i miliardi faticosamente in questi anni in migliaia di miliardi, grazie al lavoro delle banche multilaterali di sviluppo, come la Banca mondiale.

«Dobbiamo costruire su quanto fatto al G20 di Roma», portando i capitali privati nella lotta ai cambiamenti climatici attraverso la condivisione pubblica del rischio. Al momento la mobilitazione finanziaria sembra la migliore carta che ha in mano il vecchio mondo per uscire da questa crisi.

Il discorso più potente al World leaders summit però non lo ha fatto un capo di stato o di governo, ma il documentarista britannico David Attenborough. Non esiste una distinzione tra economie sviluppate ed economie in via di sviluppo, perché «nessuna economia potrà essere davvero sviluppata finché non sarà ecologicamente sostenibile».

E ha parlato di «disperata speranza»: quella che la società civile, la scienza, i giovani, stanno mettendo in questi leader e nei loro negoziatori affinché trovino gli strumenti per tenere a portata di mano la possibilità di un pianeta abitabile anche alla fine del secolo.

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