La giornata dedicata all'energia della Cop26 ha dato un doppio schiaffo al futuro delle fonti fossili. Non siamo vicini al K.O., ma sono arrivati annunci di sostanza, nutrimento per il partito dell'ottimismo sulla riuscita di questa conferenza sul clima, galvanizzato anche dal fatto che per la prima volta gli impegni presi a Glasgow proiettano il riscaldamento futuro sotto i 2°C, sulla soglia di 1.8°C, secondo l'Agenzia internazionale per l'energia. Se rispettati, ovviamente.

Il primo risultato di ieri coinvolge direttamente il governo italiano: ventisei tra paesi e grandi istituzioni finanziarie hanno deciso uno stop ai finanziamenti pubblici a garanzia di trivelle e gasdotti a partire dal 2023. Si spostano così 17 miliardi di dollari dalle fonti fossili all'energia pulita e si rende più difficile il futuro di nuovi progetti di estrazione in ecosistemi delicati come l'Artico e l'Africa.

Cingolani contro Franco

L'Italia si è iscritta in questo club dei virtuosi all'ultimissimo secondo. Una prova del fatto che la decisione è stata sofferta ed è stata perfezionata sulla campanella è il fatto che nell'infografica di presentazione dell'iniziativa il nostro paese non c'era, perché non c'è proprio stato tempo di inserirla.

Fino alla mattina si erano rincorse voci su un'assenza dell'Italia, c'è stato conflitto tra il ministero dell’Economia (a cui spettava la decisione) e quello della transizione ecologica.

Cingolani si è infuriato e ha vinto le resistenze interne al ministero dell’Economia guidato da Daniele Franco, che erano state piuttosto ostinate a difesa dello status quo. Non ha aiutato il fatto che fosse in corso la discussione sulla legge di bilancio. In ogni caso, forse per la prima volta Cingolani ha interpretato il suo ruolo di ministro della transizione ecologica come difesa delle ragioni dell'ambiente all'interno del governo e l'ha spuntata.
 

Le implicazioni di questa decisione sono più importanti della farraginosità del processo politico. Tra i paesi che hanno firmato ci sono il Regno Unito (motore dell'iniziativa), gli Stati Uniti, il Canada, mancano non solo India e Cina ma anche paesi in teoria leader della transizione energetica globale, come Francia e Germania. Per l'Italia si dovrà così fermare, tra poco più di un anno, un flusso che era stato di 18 miliardi di dollari dalla data simbolo dell'accordo di Parigi a oggi, un tesoretto di fondi pubblici che si sbloccano e possono essere messi a disposizione dell'energia pulita.

Tra i progetti a partecipazione italiana in fase di approvazione che rischiano di trovarsi senza garanzie dopo l’annuncio c'è Arctic LNG-2, mega progetto di estrazione e liquefazione di gas nell'artico russo, o l'oleodotto EACOP, che taglierà in due Uganda e Tanzania fino all'Oceano indiano. Non è detto ovviamente che non saranno costruiti, ma non potranno essere garantiti da soldi pubblici a partire dal 2023.

«La questione della finestra temporale è importante. Il rischio è che scatti una corsa al finanziamento dei progetti prima della scadenza, di solito è quello che accade dopo questo tipo di annunci», spiega Simone Ogno di Re:Common. Come per tutti gli impegni (non legalmente vincolanti) della Cop26, sarà l'implementazione pratica a fare a differenza.

Carbone, macchine, alberi e soldi

Activists from Extinction Rebellion and other groups protest against the Arms Industry during a march near the COP26 U.N. Climate Summit in Glasgow, Scotland, Thursday, Nov. 4, 2021. (AP Photo/Alastair Grant)

Il secondo risultato significativo riguarda uno dei punti chiave della Cop26 secondo l'agenda dettata da Boris Johnson, «carbone, macchine, alberi e soldi». Non abbiamo ancora «consegnato il carbone alla storia», come ha enfaticamente detto il presidente della conferenza sul clima Alok Sharma, ma ci siamo più vicini che una settimana fa: 23 nazioni hanno per la prima volta preso un impegno per smettere di usare la fonte energetica più sporca.

Tra questi ci sono cinque dei suoi venti più grandi utilizzatori, tra i degni di nota: Polonia, Indonesia, Vietnam, Corea del Sud e Ucraina. Non ci sono - ed era ampiamente previsto - grandi utilizzatori come Cina, India e Australia, la speranza diplomatica è che questo annuncio -  come quello sui finanziamenti pubblici - abbia un effetto innesco. È sicuramente una coalizione che avrà senso solo se allargata.

Secondo Marco Giuli, ricercatore sull'energia e consigliere scientifico dell'Istituto affari internazionali, i motivi per celebrare sono diversi: «Ci sono paesi considerati problematici, come quelli del sudest asiatico o la Polonia. Abbiamo messo insieme un fronte di grandi consumatori, mancano i grandissimi, che hanno scelto un'altra strada: lavorare sulle infrastrutture e creare lo spazio per aggredire il carbone in un secondo momento».

Ci sono poi piccole storie interessanti, come il phase out del Botswana. «Non ha ovviamente un grande impatto sulle emissioni, ma è una nazione in via di sviluppo e questa scelta inverte la narrazione che il carbone è imprescindibile per garantire sviluppo a questi paesi».

Sono segnali interessanti sulla creazione di fronti ampi, unica garanzia di successo per la conferenza. Per ritornare al senso di realtà, un report del Global Carbon Project mostra come le emissioni sono cresciute quest'anno più di quanto fossero cadute nel 2020. Quelle cinesi sono aumentate del 4 per cento, quelle dell'India del 12 per cento, quelle di Usa e Unione Europea del 7,6 per cento.

Il carbon budget, cioè le emissioni che possiamo ancora permetterci, potrebbe essere bruciato in undici anni. «Gli effetti delle decisioni prese alla Cop26 possono ancora cambiare tutto», ha commentato Corinne Le Quéré, dell'University of East Anglia, una di quelle che hanno partecipato allo studio.

«La possibilità di 1.5°C è ancora viva». La prima condizione è che l'onda di annunci importanti continui, la seconda è che quegli impegni vengano mantenuti.

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