Alla Cop26 di Glasgow i negoziatori iniziano la trafila di notti insonni che porteranno a un accordo finale. C’è da raddrizzare una trattativa con segni di cedimento su vari fronti, dal conteggio delle emissioni ai mercati del carbonio, e che fatica ad affrontare il bersaglio più evidente: la dipendenza dalle fonti fossili di energia.

Le prospettive iniziano a farsi preoccupanti: Climate Action Tracker, la più autorevole fonte indipendente sulle politiche climatiche, ha diffuso la sua analisi in tempo reale su cosa significherebbe per la Terra l’applicazione dei nuovi impegni presentati in occasione della Cop26: siamo su una traiettoria di aumento delle temperature di 2,4°C, sopra la soglia massima dell’accordo di Parigi (2°C), lontana da quanto deciso al G20 di Roma (1,5°C).

A margine, l’Ufficio meteorologico britannico ha diffuso un’altra analisi sulle conseguenze pratiche di questi numeri: sopra 2°C un miliardo di persone  rischiano di essere colpite da problemi di salute potenzialmente fatali legati alle alte temperature. È per correggere questa traiettoria che iniziano le notti insonni allo Scottish Event Center.

La decarbonizzazione che non c’è

I paesi più impattanti sul clima sono ancora riluttanti a stabilire tempi e fare progetti comuni per rinunciare non solo al carbone (che, Germania e Polonia a parte, è una questione di paesi in via di sviluppo) ma anche al petrolio e al gas. L’obiettivo non è smettere di usarli, perché quello è l’orizzonte trentennale, ma almeno non intraprendere nuove iniziative di perforazione, esplorazione e trivellazione nel presente, rispondendo all’invito di Ipcc e Agenzia internazionale dell’energia: tenere le fonti fossili sotto terra.

L’unica iniziativa concreta in merito alla Cop26 – la Beyond Oil and Gas Alliance (Boga) – è stata finora sostanzialmente ignorata dalle grandi potenze. Si tratta di un ambizioso progetto promosso da due piccoli paesi, Danimarca e Costa Rica, per aggregare una coalizione di nazioni e di istituzioni sovranazionali disposti a impegnarsi per fermare nuove trivellazioni domestiche. Sarebbe un primo passo verso una vera decarbonizzazione, che però qui nessuno, a parte i piccoli paesi o quelli vulnerabili, sembra disposto a fare.

Bla bla bla italiano

L’Italia se ne tiene il più possibile a distanza. Dal Ministero della transizione ecologica sostengono che i nostri negoziatori non ne fossero nemmeno a conoscenza. La preparazione dell’alleanza contro nuove trivellazioni è però nota da tempo e anche gli attivisti di Fridays for Future hanno fatto uscire un comunicato in cui sostanzialmente dicono: adesione italiana al Boga o è tutto bla bla bla. È una forzatura, ma rimane il fatto che il nostro paese ha preferito schivare un patto che avrebbe archiviato il dibattito sulle trivelle.

La prospettiva di estrarre nuovo gas italiano è diventata un antidoto contro le ansie da crisi delle bollette. Ma nuove trivellazioni non aumenterebbero la nostra sicurezza energetica (copriremmo meno di un anno e mezzo di consumi), senza contare che da noi la domanda di gas è scesa del 14 per cento negli ultimi tredici anni (da 86 a 74 miliardi di metri cubi).

Oggi il gas è il 47 per cento della generazione elettrica, entro il 2030 l’Italia deve portare le rinnovabili al 72 per cento, in teoria completando proprio il declino del gas, lasciandogli un ruolo residuale. Con la difficoltà a concepire iniziative come Beyond Oil and Gas Alliance, l’Italia dimostra però di non credere alla sua stessa transizione energetica.

Il piano che manca

Le carte sull’alleanza sono ancora coperte, ma i negoziatori fanno trapelare l’adesione di Francia, Irlanda, Svezia, California e Quebec. La Francia ha già da anni un orizzonte chiaro per fermare progetti di estrazione in patria, quindi non è una novità vera, per il resto – a parte l’interessante impegno della California, di recente colpita da un disastro petrolifero al largo delle coste – non è al momento il più ampio dei fronti.

Il dibattito intorno alla Cop26 sembrava aver individuato tre colpevoli (Arabia Saudita, Brasile, Australia) ma quando si tratta di toccare gli interessi delle aziende fossili anche i leader del processo sembrano imballati. Vale lo stesso per la Francia, che la settimana scorsa ha scelto di non entrare tra i paesi che metteranno uno stop ai finanziamenti all’estero, per non toccare gli interessi di Total.

Anche la posizione del Regno Unito, guida del negoziato, non è felice. «Non hanno un piano per rinunciare alle fonti fossili, non ci pensano nemmeno a farlo, anzi, stanno aprendo nuove perforazioni al largo della Scozia», spiega Romain Ioulalen di Oil Change International. «È per questo che fanno fatica a respingere l’ostruzionismo dei paesi petroliferi». È la falla della transizione energetica globale: i paesi che si sono candidati a guidarla faticano a conquistarsi la credibilità per farlo.

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