- Alla Cop26 di Glasgow è stata lanciata una dichiarazione per mettere fine alle garanzie pubbliche per nuovi progetti di estrazione di petrolio e gas a partire già dal 2023: 8 miliardi di fondi vengono così spostati dalle fonti fossili all’energia pulita.
- Non è ancora chiaro cosa farà l’Italia, che fino alla sera prima è stata fuori dall’accordo. La dichiarazione è stata proposta dal Regno Unito e dalla Banca europei degli investimenti e vede la partecipazione di due grandi paesi del G7.
- L’Italia ha erogato 18 miliardi di euro in garanzie pubbliche ai progetti di estrazione internazionale di petrolio e gas dall’accordo di Parigi a oggi.
Oggi alla Cop26 di Glasgow viene annunciata una nuova iniziativa che rende più operativa e pratica la missione di tenere l’aumento delle temperatura a 1.5°C entro fine secolo (come solennemente promesso dal G20 di Roma) e di smettere di erogare sussidi pubblici alle fonti fossili di energia (impegno preso dai paesi del G7): la fine del supporto finanziario pubblico a nuovi progetti internazionali di estrazione di petrolio e gas entro il 2022.
Era una delle carte del Regno Unito per la riuscita della Cop26 («tenere 1.5° a portata di mano»), qualcosa a cui la diplomazia britannica sta lavorando da tempo insieme alla Banca europea per gli investimenti (Bei): oltre al Regno Unito, i negoziatori di Boris Johnson sono riusciti finora a convincere due grandi paesi del G7 che saranno annunciati nella mattinata di oggi, ma non è chiaro cosa farà l’Italia, che non risulta tra i primi firmatari della bozza. Il governo italiano è a conoscenza della possibilità a tutti i livelli ed è diviso sul da farsi. Le pressioni britanniche saranno forti fino all’ultimo secondo, per la dinamica degli accordi e della Cop, basta una telefonata nella notte per sbloccare le cose.
Nella lista, nella serata di ieri, c’erano venti paesi, ma si lavorerà fino all’ultimo per aumentarne il numero, provando a tirare dentro anche Germania e Francia: per ora si tratta di dieci paesi sviluppati e dieci in via di sviluppo, una versione scalata in piccolo del fronte tra responsabili e vittime della crisi climatica che la Cop26 sta provando a creare.
L’accordo sposterà 8 miliardi di dollari all’anno in fondi pubblici dal settore oil&gas a quello delle energie pulite, oltre a rendere operativamente più difficile dal 2023 iniziare esplorazioni ed estrazioni in ecosistemi delicati, come ad esempio quello enormemente contestato da 120 miliardi di barili di petrolio nella regione dell’Okavango da parte della canadese ReconAfrica, con oltre 20mila metri quadri coinvolti tra Namibia e Botswana in uno degli ambienti naturali più fragili al mondo.
Per diventare operativi, piani di queste dimensioni hanno bisogno di fondi e garanzie, l’accordo di oggi ferma quelle pubbliche nel giro di un anno e mezzo e mette pressione politica su quelle private per seguire la stessa strada.
Che fa l’Italia?
«L’Italia per ora ha preferito non aderire per evitare problemi interni con le grandi aziende nazionali dell’energia», ha detto a Domani nel pomeriggio di ieri una fonte del governo britannico, «ma ci auguriamo che possano entrare nell’accordo prima della fine di Cop26», che può voler dire anche stamattina.
La competenza spetta al ministero dell’Economia (ieri Daniele Franco è stato a Glasgow, ma senza nessuna uscita pubblica), l’adesione coinvolgerebbe le policy future di Cassa depositi e prestiti e soprattutto Sace, l’agenzia italiana per il credito all’esportazione.
Per chi firma, la dichiarazione mette uno stop alle garanzie fatte con soldi pubblici per le aziende e i fondi che sviluppano progetti upstream legati a nuovi giacimenti di gas e petrolio.
Per l’Italia, parliamo per esempio del gigantesco piano di estrazione di gas Arctic LNG-2, guidato dalla russa Novatek al quale partecipa Saipem, nel fragilissimo artico siberiano, o il giacimento Coral South nel bacino Rovuma, 40 km al largo del Mozambico, che vede coinvolta Eni. Questo tipo di sussidi pubblici alle fonti fossili sono triplicati dall’accordo di Parigi, per l’Italia si tratta di 18 miliardi di euro mobilitati per la ricerca di petrolio e gas nel mondo tra il 2016 e il 2020.
L’accordo annunciato non è vincolante e contiene anche una clausola che ne smorza la radicalità, visto che prevede spazio per consentire nuovi progetti di estrazione di petrolio e gas se viene dimostrato che questi sono in linea con l’obiettivo di 1.5°C.
Chi aderisce però lancia un chiaro segnale politico nei confronti delle fonti fossili, diretto anche ai finanziatori privati che le sostengono. Non si tratta di interrompere l’estrazione di gas e petrolio da giacimenti esistenti, ma di fermare almeno il supporto pubblico alla ricerca di nuove estrazioni all’estero.
Secondo una ricerca pubblicata su Nature dallo University College London, per avere almeno la metà delle probabilità di tenere l’aumento delle temperature a 1.5°C, la produzione di petrolio e gas deve iniziare a declinare da subito del 3 per cento ogni anno.
È quello che ha scritto anche l’Agenzia internazionale per l’energia: c’è una via obbligata per arrivare allo zero netto entro il 2050 ed è non aprire nuovi progetti di estrazione di petrolio e di gas.
Un buon modo per mettere fine a questa corsa all’idrocarburo è interrompere i finanziamenti pubblici. Per l’Italia aderire può essere un passo per dimostrare che l’obiettivo di tenere l’aumento di temperatura a 1.5°C entro la fine del secolo è reale e non solo una forma di procrastinazione. La Cop26 finisce il 12 novembre.
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