Cop30, la sfida di Lula: una nuova roadmap Onu per salvare il pianeta

Mancano due giorni alla fine di Cop30, e a Belém sono in arrivo, con il loro peso politico e mediatico, il presidente del Brasile Lula e il segretario generale Onu Guterres, nel tentativo di portare a casa un risultato «storico» sui combustibili fossili. Per interpretare meglio queste virgolette, dobbiamo intenderci su cosa significherebbe storico, su che valore avrebbe sul mondo reale, fuori dai confini di questi padiglioni. Per il modello conferenze sul clima, la vera transizione da fare è passare dal “cosa” fare (contenere l’aumento delle temperature, e su questo c’è consenso da dieci anni, tanti sono passati dall’accordo di Parigi) al “come” farlo, cioè riducendo il consumo di fonti fossili di energia, che sono la causa di due terzi dell’aumento di quelle temperature. Per capirci, c’erano voluti ventotto incontri di questo tipo, con milioni di ore lavoro diplomatiche, solo per menzionarli in un documento ufficiale. Era successo a Dubai, nel 2023. Due anni dopo, a Belém, in un altro paese petrolifero, anche se in modo più riluttante e meno identitario come il Brasile, potrebbe aggiungersi un altro tassello: l’istituzione di una roadmap, un canale di dialogo permanente dentro le Nazioni Unite per codificare e strutturare la transizione dei singoli paesi da un’economia fossile (dannosa per il clima e tendenzialmente senza futuro) a un’economia rinnovabile (innocua per il clima e tendenzialmente con un grande futuro). Cop30, Bonelli: «L’Europa ha un’opportunità, ma sul clima Meloni fa la portavoce di Trump» Cose mai viste Ora istruzioni per l’uso della parola “storico”. Lo sarebbe, nel senso di cosa nuova, mai vista, inedita. Difficilmente sarebbe trasformativa come auspicato dalla scienza, dagli attivisti, dai paesi più colpiti dalla crisi climatica. Nella pratica del mondo reale, che le Cop tendono a dimenticare, sarebbe un indirizzamento. La creazione di una roadmap per l’uscita dalle fonti fossili sarebbe preziosa perché accadrebbe in un mondo nel quale il presidente degli Stati Uniti ha inaugurato la roadmap opposta, quella per l’etnonazionalismo petrolifero, con una rinnovata corsa a estrarre tutto l’estraibile, in suoli federali, non federali, oceanici, artici, ovunque ci sia un idrocarburo nella visione di Trump ci deve essere una trivella. Il peso politico sull’idea di roadmap come giusta soluzione ce lo ha messo tutto Lula, che potrebbe riuscire nel capolavoro politico di aver autorizzato l’esplorazione alla ricerca di petrolio in Amazzonia e sempre in Amazzonia aver costruito un consenso globale verso la fine dell’uso di quella risorsa. Tutto nello stesso mese. Al summit dei popoli che ha fatto da controvertice alla Cop30, Lula ha inviato un messaggio, letto dalla ministra dell’Ambiente Silva: «Non possiamo più rinviare le decisioni dibattute in tanti anni di negoziati. Questa roadmap serve a consentire all’umanità di superare la dipendenza da fonti fossili in modo equo e programmato». Il negoziato per arrivarci si sta rivelando impervio, come è naturale che sia. I dettagli politici sono chiarissimi a chi frequenta queste stanze da decenni, e straordinariamente astratti per chi li segue da fuori, una giungla di acronimi e burocrazia che si è frapposta tra le conferenze sul clima e la comunità umana che dovrebbe giovarsene. È questo il motivo per cui i popoli indigeni hanno assaltato o provato a bloccare la Cop e gli altri la guardano con crescente indifferenza, nonostante la posta in gioco. L’obiettivo dei due pacchetti in discussione (Belém Package e Mutirão package) è produrre uno o più documenti che tengano insieme i pezzi della lotta alla crisi climatica: fonti fossili, adattamento, flussi finanziari. Le emissioni di metano rallenteranno, ma pesa l’incognita Gnl. Onu: «Se corri contro un muro, il freno a mano non lo tiri a metà» Una nuova egemonia Per riuscirci, in assenza degli Usa e con un’Europa percepita come debole e ipocrita, c’è una sola via politica: una guida dei paesi Brics, le grandi economie emergenti, che hanno visto nella Cop un modo per costruire nuova egemonia. Il Brasile propone, la Cina media (forte del suo dominio industriale), poi arrivano gli altri. Una coalizione di 82 paesi ha aderito alla chiamata collettiva per una roadmap per avviare questo processo. A nome loro hanno parlato una nazione insulare del Pacifico (Isole Marshall), due paesi africani (Kenya e Sierra Leone), uno latinoamericano a guida socialista (la Colombia) e uno dell’Ue governato dalla destra (Germania) e infine il Regno Unito. Una prova che la lotta per l’uscita dalle fonti fossili può essere trasversale politicamente e geograficamente. Al momento, non c’è l’Italia. Intanto, di serio c’è la crisi climatica. Boston Consulting Group ha diffuso un report molto letto nel mondo industriale sui punti di non ritorno climatico-finanziari e come prepararsi, una mappa dello shock sistemico al quale andiamo incontro senza riduzione delle emissioni di gas serra. I mercati assicurativi sono in crisi: in Florida, stato Usa particolarmente martoriato, dal 2018 le polizze non rinnovate sono aumentate del 275 per cento, e i prezzi della riassicurazione sono saliti del 60 per cento. I sistemi commerciali sono sotto stress: Ghana e Costa d’Avorio hanno distrutto parte dei raccolti di cacao per contenere un virus favorito dalle condizioni climatiche. Le perdite assicurative globali legate a eventi estremi superano ormai i 100 miliardi di dollari l’anno. Anche i biocarburanti inquinano, nel trasporto su strada l’obiettivo deve essere elettrificare Intanto alcuni pezzi della transizione si stanno allineando, felicemente governati non dalla politica, ma dall’economia. Una notizia buona è arrivata dalla Corea del Sud, che ha annunciato la chiusura di 41 delle sue 60 centrali a carbone, mandando però nel panico l’Australia, che del carbone, fonte fossile più inquinante, è il primo esportatore. Fatto divertente: l’Australia è anche candidata a ospitare la prossima conferenza sul clima.