La Cop31 alla Turchia: Erdogan si è preso anche il negoziato climatico

In attesa che gli altri pezzi del negoziato si sblocchino, il sistema Cop riunito a Belém per la trentesima conferenza sul clima ha dovuto incassare una nuova sconfitta: dopo l’euforia disordinata dell’attivismo indigeno, l’anno prossimo le Cop torneranno in un paese con ristrettissimi spazi per la società civile e la partecipazione pubblica. La Cop31 del novembre 2026 si terrà a sorpresa in Turchia, nella città balneare di Antalya. Erdogan si è insomma preso il negoziato climatico, pur avendo credenziali basse sulla materia e uno dei piani di decarbonizzazione più insufficienti al mondo. La sfida per organizzare il prossimo evento Onu sul clima era tra Australia e Turchia, cioè tra una democrazia piena e un regime autoritario. Che abbia vinto il secondo, non può non essere preso come un segno dei tempi. Sovranista o isolazionista? Sull’ambiente il governo sembra Forrest Gump La beffa per l’Australia Fino a pochi giorni fa, erano tutti convinti del fatto che la Cop31 si sarebbe tenuta nella città australiana di Adelaide, di fronte alla climaticamente martoriata isola di Kangaroo Island (devastata dagli incendi nel 2019): nel 2026 le nazioni insulari del Pacifico speravano di essere quello che i popoli amazzonici sono stati a questa Cop di Belém, la propulsione simbolica proveniente dagli abitanti di uno degli ecosistemi più minacciati. L’Australia del governo Albanese ci aveva messo peso politico, soldi, impegno, il supporto di un continente, tre anni di lavoro dietro le quinte, la prospettiva di una conferenza ordinata e democratica. Non aveva fatto i conti con Erdogan e la sua voglia di superare lo status di potenza regionale: la Turchia proverà a usare la sua Cop31 esattamente come il Brasile ha fatto con la Cop30, come una leva di ascesa geopolitica in un mondo che sta perdendo i riferimenti noti e ne sta cercando di nuovi. Un incontro a cui partecipa ogni paese della Terra (Stati Uniti esclusi) sembra cucito sulle ambizioni della Turchia di Erdogan. Il prezzo è una sconfitta per la comunità climatica, che sperava in una Cop del Pacifico in cui mettere al centro la voce e i problemi di alcuni tra i popoli più dimenticati della Terra. Ilana Seid, la rappresentante dell'arcipelago di Palau (500 isole della Micronesia) all’Onu, nonché presidente della coalizione delle nazioni insulari, ha detto a Belém: «Per voi occidentali la differenza tra un grado e mezzo e due gradi può sembrare tollerabile, gestibile, ma per noi vuol dire superare il punto di non ritorno oltre il quale perdiamo il 90 per cento delle barriere coralline, l’ecosistema su cui si fondano le nostre economie e le nostre culture». In un multilateralismo sostituito dalla legge del più grande, forte e aggressivo, questi allarmi sono sempre più ignorati, anche alle Cop, in teoria l’unico spazio in cui dovrebbero avere piena rappresentanza. La Cop del Pacifico in Australia le avrebbe rimesse al centro: per una volta sarebbero stati gli altri a doversi sobbarcare il lunghissimo viaggio, e non i delegati di Fiji, Tuvalu, Vanuatu. Cop30, Bonelli: «L’Europa ha un’opportunità, ma sul clima Meloni fa la portavoce di Trump» Il contentino ad Albanese E invece non è andata così: al Pacifico è stata concessa, come compromesso, l’irrilevante pre-Cop, un pre-vertice quasi esclusivamente tecnico, senza alcuna risonanza politica e mediatica, e la presidenza del negoziato, che andrà al ministro dell’ambiente australiano Chris Bowen. Dopo aver incassato la sconfitta peggiore della sua carriera, Bowen dovrà gestire la coabitazione forzata con Erdogan in casa di Erdogan: non c’è che da augurargli buona fortuna. Denise Cauchi, rappresentante di Climate Action Network Australia, ha detto: «Spetta al premier australiano Albanese assicurarsi che la Turchia consenta la piena agibilità della partecipazione politica intorno alla Cop31». In un paese dove il principale membro dell’opposizione, il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, rischia 2mila anni di prigione, sembra davvero poco più che pensiero magico. A Belém ieri è passato anche il segretario generale dell’Onu Guterres, che ha provato a dare uno stimolo per sbloccare i dossier centrali del negoziato – fonti fossili, finanza e adattamento – ma ha soprattutto sancito la novità culturale e politica meno raccontata di Cop30: la normalizzazione del superamento del grado e mezzo di temperatura come ultimo limite climatico di sicurezza. Dalla Flotilla indigena la pressione sulla Cop30: fare dell’Amazzonia un santuario contro il fossile «Andremo oltre il grado e mezzo, al più tardi alla fine degli anni Trenta, e poi dobbiamo fare in modo per tornare velocemente al di sotto prima che si inneschino i punti di non ritorno», ha detto, facendo eco alla posizione ormai di tutta la scienza del clima. All’inizio del suo primo mandato, nel 2017, il mantra di Guterres era «tenere l’obiettivo 1.5°C in vita», lo ha ripetuto anche ieri a Belém ma, otto anni di emissioni dopo, la frenata prima di superare la soglia del grado e mezzo non è più fisicamente possibile, tutto quello che si può fare è sperare di tornare al di sotto. Per farlo servirà uno sforzo drastico e veloce di riduzione delle emissioni. È un modo per ribadire quanto la situazione termodinamica sia grave per tutti, ma in particolare per i paesi del Pacifico, dove la minaccia è esistenziale: quest’anno già un terzo degli abitanti di Tuvalu ha chiesto di avviare il percorso di migrazione controllata. In Australia avrebbero almeno potuto far sentire la propria voce. Il grande gioco del sultano Erdogan, la Turchia neo ottomana si avvicina al confronto con Israele