La prima città d’Italia e del Mediterraneo a ospitare un parco eolico marino sarà anche quella attorno a cui da anni ormai si fa e si disfa il discorso sul declino industriale italiano: Taranto. La Città dei due mari ospita infatti l’acciaieria più grande d’Europa, l’Ilva, un gigante malato che continua a inquinare, vittima della crisi della siderurgia, con gli operai costretti in massa alla cassa integrazione. Di recente il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è tornato a Taranto per dire che il suo governo ha a cuore il destino della città e che vuole una «riconversione tecnologica» ed ecologica dell’Ilva, senza però fornire dettagli.

Ma davanti al porto del capoluogo pugliese sta forse per realizzarsi una nuova opportunità di sviluppo, anche per il settore siderurgico.

L’impianto eolico, di proprietà di Renexia, una società del gruppo che fa capo all’imprenditore Carlo Toto, più che offshore, è nearshore: le dieci turbine, come gigantesche girandole alte un centinaio di metri, sorgeranno in parte accanto al molo del grande scalo industriale, in parte poco più al largo. Le fondazioni su cui saranno realizzate le turbine sono pronte, a una profondità compresa tra i 4 e 18 metri, così come la connessione. La wind farm comincerà a produrre energia elettrica nel 2021, per 80 GigaWatt per ora (GWh) l’anno, pari ai consumi elettrici di circa 40mila famiglie in un anno.

L’idea di quel parco eolico viene da lontano: il progetto firmato da Luigi Severini nasce nel 2008, la Valutazione d’impatto ambientale (Via) viene approvata nel 2012. Poi nel 2018 arriva una modifica. Nel frattempo, il Tar pugliese prima e il Consiglio di stato poi rigettano le opposizioni del comune, della regione e della Soprintendenza ai beni paesaggistici, che contestano lo sfregio al paesaggio. Le associazioni ambientaliste, invece, difendono il progetto: in una città industriale come Taranto, che ospita gli altiforni dell’Ilva e il petrolchimico, come potrebbero le pale eoliche, che non inquinano e non emettono gas a effetto serra, rovinare la vista?

Rendering dell'impianto che sta sorgendo a Taranto.

Venti parchi eolici bloccati

L’impianto sarà il primo a vedere la luce dopo che i progetti di almeno venti parchi eolici sono stati bocciati, ritirati o rimangono semplicemente sospesi. Come è il caso di quello al largo di Manfredonia, che dal 2012 attende la firma del ministro dell’Ambiente, nonostante le carte siano in regola. Dal ministero spiegano che «serve una decisione politica, è cosa che spetta al governo». Quale governo, non si sa, perché in otto anni si sono succeduti diversi esecutivi, ma la firma non è ancora arrivata.

L’Italia, finora, non era un paese per l’eolico offshore, ammette Simone Togni, presidente dell’Anev, l’associazione dei produttori di energia eolica. «Non è solo un problema di rotte nautiche, di protezione della fauna marina o degli uccelli. L’orografia è molto complessa, i fondali scendono molto velocemente, la ventosità del Mediterraneo è inferiore a quella di altri mari. Nel mare del Nord i fondali sono bassi e si possono ancorare le piattaforme al terreno. Da noi tranne casi rari, no, anche perché non si possono costruire impianti troppo vicino alla costa, le autorità locali e le soprintendenze protestano per il paesaggio. Taranto è un’eccezione». La questione è complessa. «È un problema economico, perché servono investimenti importanti. E poi c’è anche un aspetto burocratico, perché i tempi di approvazione sono lunghi e costosi. E i progetti non si possono modificare in corsa, mentre le tecnologie cambiano: bisogna cominciare tutto da capo», dice Togni.

Rendering che illustra l’evoluzione delle tipologie di fondazioni per turbine eoliche fino ad arrivare al floating concept della tecnologia Hexafloat.

Impianto nato già vecchio

Il nuovo impianto di Taranto, per esempio, nasce in realtà vecchio: monta turbine da 3 megawatt (MW), mentre oggi se ne fabbricano da 10-15 MW. Significa che a parità di produzione, servirebbero meno pale. Oppure che, utilizzando la stessa superficie, si produrrebbe più energia.

Ma a quanto pare ora il vento sta cambiando. Che l’Italia s’impegna sull’eolico offshore è scritto nel Piano nazionale integrato energia e clima concordato con l’Unione europea, che assegna alle wind farm marine (letteralmente fattorie del vento, cioè i parchi eolici)  almeno 1000 MW entro il 2030.

Poco, rispetto ai 21mila MW  previsto per l’eolico italiano su terra nei prossimi dieci anni. E rispetto a paesi come Regno Unito, Germania, Danimarca, Paesi Bassi e Belgio, con una capacità di più di 22mila MW già installati in Europa, per oltre 5mila turbine, soprattutto nel mare del Nord, secondo le statistiche 2019 di Wind Europe, l’associazione europea del settore.

Ma l’obiettivo italiano, secondo lo scienziato Gianni Silvestrini, esperto di cambiamento climatici ed energia, già direttore del ministero dell’Ambiente, è destinato ad aumentare a breve. «C’è un deciso cambio di marcia, sia a livello internazionale che in Italia. Siamo abbastanza indietro sugli obiettivi per il rinnovabile elettrico, e la Commissione europea si prepara ad innalzare ulteriormente gli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti previsti per il 2030», dice Silvestrini. Il 16 settembre la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen ha annunciato che Bruxelles sta lavorando a una riduzione delle emissioni del 55 per cento, dall’attuale 40 per cento.

Facilitare gli impianti

Intanto, le principali associazioni ambientaliste - Wwf, Legambiente, Greenpeace - hanno sposato decisamente la linea dell’eolico offshore, perché più vento significa meno petrolio e gas. «L’Italia non ha tante altre grandi possibilità per produrre energia rinnovabile, rinunciare all’offshore sarebbe un danno», dice Edoardo Zanchini, vice presidente di Legambiente. «Serve che lo stato dia linee guida più chiare per dare certezza alle procedure e anche strumenti per evitare il fallimento di chi investe in questo settore. Il governo deve decidere di accompagnare questo processo».

Anche sul piano istituzionale ci sono novità. Secondo Oliviero Montanaro, capo della direzione generale per la crescita sostenibile del ministero dell’Ambiente, gli strumenti richiesti dalle imprese dell’eolico e dagli ambientalisti per facilitare la costruzione degli impianti, nel rispetto delle regole ambientali e paesaggistiche, stanno per arrivare. Nel decreto semplificazioni approvato giorni fa dal parlamento è prevista una corsia preferenziale che prevede, attraverso un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), ancora da varare, l’identificazione di quali siano gli interventi funzionali al Piano energia e ambiente, e le aree in cui invece non si possono realizzare impianti. Il sistema di pianificazione dello spazio marittimo della Ue, recepito due anni fa dall’Italia e che consente di individuare le zone che possono ospitare parchi eolici, dovrebbe invece essere varato al massimo entro il primo semestre del 2022, a causa dei ritardi per il Covid. Nel frattempo, però, dicono gli operatori del settore, da dicembre scorso, da quando cioè sono subentrati i nuovi membri, la commissione Via del ministero non ha prodotto ancora documenti: anche in questo caso, colpa del Covid?

Un altro fattore di probabile accelerazione per l'offshore italiano è una nuova tecnologia che consente di realizzare parchi eolici lontano dalle coste, e dunque di fatto escluse dal paesaggio. Si chiama offshore flottante: le turbine non sono più ancorate al fondale, ma galleggiano anche a decine di km dalle spiagge su speciali piattaforme, stabilizzate grazie a strutture sottomarine, che vengono costruite a terra e poi trasportate in mare, per le quali servono grandi quantità di acciaio.

Rendering della tecnologia Hexafloat, un modello di turbina eolica galleggiante brevettata da Saipem e attualmente testata al largo delle coste irlandesi per il progetto AFLOWT (Accelerating market uptake of Floating Offshore Wind Technology)

I progetti in Sicilia e Sardegna

Sono floating due progetti di Severini per il Canale di Sicilia e la Sardegna, aree che per gli esperti sono le migliori in Italia per lo sfruttamento dell’energia prodotta dal vento (ma anche l’Adriatico a quanto pare può fornire un contributo importante). L'investimento complessivo per le due wind farm è di circa 2,5 miliardi di euro. I due progetti sono in fase di istruttoria tecnica al ministero dell’Ambiente.

Il primo parco eolico, proposto dalla 7Seas Med, sarà composto da 25 turbine da 10 MW l’una, con l’impiego di 80mila tonnellate di acciaio, e sarà situato a 35 chilometri dalla costa, forse già entro il 2023, dice lo stesso Severini. Il secondo impianto, della Ichnusa Wind Power, anche questo a 35 chilometri chilometri dalla costa, conterà 42 turbine da 12 MW l’una e necessiterà di almeno 160mila tonnellate di acciaio: sarà pronto sperabilmente per il 2024. La tecnologia impiegata in entrambi i parchi è quella della danese Stiesdal.

Ma c’è anche un’azienda italiana che ora punta sull’eolico flottante, Saipem. Nata come società di servizi per il settore petrolifero, la società controllata da Eni e Cdp sta da tempo cercando di riposizionarsi, e oggi il 73 per cento dei progetti in portafoglio sono legati al gas, alle energie rinnovabili e alle infrastrutture. I primi studi di Saipem si sono sviluppati nel 2010. La fase attuale, dice Guido D’Aloisio, responsabile Offshore renewables business line, è quella di sviluppo dei prototipi: non ci sono ancora impianti installati, ma solo prove certificate. La prima prova effettiva in mare è prevista per il 2022 al largo dell’Irlanda, con una turbina da 6 MW. Saipem tra l’altro ha anche un cantiere ad Arbatax, in Sardegna, per i progetti sviluppati nel Mediterraneo e in Nord Europa.

Riconvertire le piattaforme

A fine agosto Saipem ha annunciato di voler realizzare in Adriatico, al largo di Ravenna, un hub energetico combinando il “solare flottante” con l’eolico offshore, con la possibilità di produrre “idrogeno verde” attraverso l’installazione di impianti di elettrolisi sulle piattaforme oil&gas, che così verrebbero riconvertite.

Energia e siderurgia sono dunque le promesse del nuovo eolico offhsore. E il discorso torna a Taranto. «Serve un hub per le sinergie possibili, bisogna pensare a come organizzare la logistica e gli spazi portuali per la cantieristica del nuovo offshore», dice Severini. «Il governo dovrebbe guardare a Taranto, che ha l’Ilva, con la produzione di acciaio laminato, e un grande porto. Ma anche la Sardegna ha porti importanti. Può nascere un sistema virtuoso che si alimenta, e che porta anche commesse dall’estero». Un esempio, di questo export, in realtà c’è già: nel 2019 l’italiana Prysmian, che produce cavi per l’energia e le telecomunicazioni, ha realizzato l’11 per cento delle installazioni dei cavi per l’eolico offshore in Europa, stando ai dati di Wind Europe.

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