Nel 1927, l’avvento di Metropolis di Fritz Lang ribalta i principi cardine del positivismo; il movimento filosofico che esaltava il progresso tecnico-scientifico, come panacea ai problemi dell’umanità. Il film, uno dei più celebri modelli di fantascienza, si sviluppa all’interno di un’immaginaria città del futuro, rappresentandone le fratture sociali e alcuni problemi legati all’uso della tecnologia.

Oggi, sappiamo che le città sono la causa del 71 percento delle emissioni globali di CO2 e riprogettarle ha un’importanza decisiva per affrontare la crisi climatica. Come anticipato da Lang, le metropoli sono diventate il simbolo della civiltà contemporanea e di questa, paradossalmente, anche la principale minaccia. Perciò il concetto di smart city ha perso da qualche tempo il suo velo accademico ed è ormai essenziale per poter immaginare il futuro.

Città intelligenti

Ma cos’è una “città intelligente”? È un modello di realtà urbana che, per ridurre il proprio impatto ambientale, ottimizza i servizi pubblici, le infrastrutture e i consumi dei cittadini. D’altronde, sappiamo che solo il settore dei trasporti contribuisce al 14 percento delle emissioni globali, ed è uno dei primi aspetti su cui è necessario intervenire, considerando che in città gli effetti della crisi climatica sono già palpabili. Un report del Carbon Disclosure Project ha evidenziato come, nel mondo l’anno scorso, già 4 città su 5 abbiano accusato situazioni d’emergenza, come quelle relative al caldo estremo, alla siccità, o alle inondazioni urbane.  

Diverse realtà, come Stoccarda e Shenzen, hanno già un’esperienza decennale con l’utilizzo di “nature-based solutions”: strumenti ispirati alla natura, come tetti verdi e boschi urbani, ricavati dalla bonifica di zone ex-industriali. Tuttavia, una narrazione che riguarda le smart city tiene maggior conto dell’utilizzo della tecnologia e del cosiddetto Internet of Things (IoT) per intervenire sulle città. Una fiducia che è in parte giustificata dall’ottimizzazione dei servizi, in parte puramente positivistica. Prendiamo come esempio Google Maps, che da qualche tempo tiene conto anche della sostenibilità di un percorso: in diverse smart city ci sono servizi pubblici simili, con app che rilevano la qualità dell’aria o eventuali problemi di mobilità.

Rivoluzione apparente

È evidente che l’utilizzo di certi strumenti ha un costo di implementazione e una manutenzione rilevante, soprattutto se si considera che per una mappatura efficace, andrebbero usati migliaia di sensori, alimentati con batterie a litio o direttamente allacciati alla rete elettrica. Inoltre, l’analisi di consumi e spostamenti genera problemi di privacy per i cittadini, ricalcando i sistemi di profilazione che già esistono nell’IoT, come per Google, Amazon o anche Netflix. È bene ricordare che un simile approccio non garantisce nell’immediato alcun miglioramento, ma è più utile a raccogliere dati che, in teoria, suggerirebbero le aree di intervento.

Seguendo questa narrazione positivistica, in alcuni casi le smart city sono state progettate da zero, con l’intento dichiarato di definire un modello di città del futuro. È quanto avvenuto con la coreana Songdo, progetto avveniristico inaugurato nel 2015, con un costo stimato di 40 miliardi di dollari. Finanziato dal colosso coreano del metallo, Posco, e da una società immobiliare, l’americana Gale International, Songdo segue uno sviluppo guidato dai privati, con la promessa di costruire una città tecnologica e al contempo verde, con 40 acri di parco nel centro città, taxi-boat elettrici e una fitta rete metropolitana.

Al momento però, Songdo è una città sottopopolata, ben collegata alle linee ferroviarie di Inchen e Seoul, dove tuttavia il trasporto su gomma è ancora frequente e il progetto di città sostenibile è stato solo in parte realizzato. Un esempio sono gli edifici del progetto, che hanno una certificazione Usgbc di sostenibilità minima, anche per questioni di convenienza economica. Certo, la città gode di una buona qualità dell’aria, ma è un’oasi nel deserto, dato che le metropoli coreane sono le più inquinate nelle classifiche dei paesi industrializzati. Il progetto di Songdo è di fatto solo in apparenza rivoluzionario; anzi, mostra come dietro questa narrazione di smart city, si celi a volte un’ottica speculatrice da parte dei privati, simile al greenwashing in altri settori.

La tecnologia non sarà sufficiente

Ma, al di là del marketing o di qualsiasi panacea tecnologica, i problemi delle città restano il frutto di più di mezzo secolo di pianificazione urbana, di infrastrutture vecchie e di periferie post-industriali. Il fatto che le multinazionali si spendano per risolvere i problemi legati all’ambiente rappresenta sicuramente una risposta alla crisi climatica; ma la tecnologia non basterà a risolvere i problemi organizzativi e infrastrutturali già esistenti.

Qualche giorno fa alla Cop27 di Sharm el-Sheik, l’Unep ha lanciato il “Nature for Cool Cities Challenge”. L’iniziativa vuole incentivare l’uso di nature-based solutions per ridurre non solo le emissioni, ma anche il surriscaldamento delle città, le cui temperature hanno una crescita due volte maggiore rispetto ai luoghi non urbanizzati. È quindi sì importante utilizzare tecnologie in grado di razionalizzare e ridurre le emissioni, ma è altrettanto cruciale “raffreddare” le città, contenere l’effetto di “isola di calore urbana”. Il modo più rapido è dotare le città di aree verdi estese e interconnesse.

Infine, è cruciale che gli enti pubblici affrontino la questione nella sua complessità geografica, non solo con strumenti futuristici. Gli interventi nature-based si dimostrano capaci di ridurre le emissioni con costi inferiori e con maggior efficacia. Come per Metropolis, è importante inoltre non trascurare il fattore umano, affinché la città non diventi specchio di una società tossica e iniqua, bensì il luogo da cui, più che la rivoluzione del film di Lang, possa partire la rinascita di una collettività, in sintonia con l’ambiente.

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