C’è il boom delle auto elettriche o ibride dietro il problema delle miniere di cobalto in Congo. Secondo quanto pubblicato dalla società di ricerche Jato Dynamics, lo scorso settembre in Europa si è verificato lo storico sorpasso nelle vendite di auto elettriche o ibride a scapito di quelle diesel. In un solo mese la domanda di auto elettrificate ha varcato la soglia delle 300mila e ha portato la quota di mercato al 25 per cento contro il 24,8 del diesel. È il risultato di un incremento costante che fa immaginare nel breve termine un dominio assoluto di questi veicoli e il progressivo abbandono di quelli diesel e, ancora più, a benzina.

Rispetto al settembre 2019 l’incremento delle vendite è stato del 139 per cento e solo dieci anni fa le auto elettriche non raggiungevano l’1 per cento del mercato. «Il passaggio dal veicolo a combustione interna a quello elettrico – ha commentato Felipe Munoz, analista di Jato Dynamics, a margine della pubblicazione dei risultati – è ormai una realtà consolidata. Certo, il mercato ancora dipende molto dagli incentivi e dalle politiche dei governi, ma da oggi possiamo dire che gli stessi consumatori sono pronti a utilizzare queste nuove tecnologie».

Come evidenziato da vari rapporti, al di là di un calo registrato nel primo semestre del 2020, giustificato in parte dal decremento generale del mercato degli autoveicoli ma ancor più dall’arrivo della pandemia che ha drasticamente ridotto spostamenti e consumi, tutto il mondo sembra orientarsi con sempre maggiore convinzione verso la green revolution e, ad eccezione degli Usa dove il mercato dei veicoli elettrici è sceso addirittura del 12 per cento nel 2019, con sole 320mila unità vendute, il resto dei patentati dei paesi più industrializzati si mettono con sempre maggiore frequenza alla guida di macchine “a spina”.

L’Europa è il battistrada, per usare una metafora quanto mai appropriata, con la Germania che punta a primeggiare nel pianeta entro il 2021. Nei paesi della Ue il settore ha resistito anche a pandemia e calo delle vendite dei veicoli in genere e si prevede che le nuove restrizioni sulle emissioni medie consentite (i limiti saranno di 95 grammi per km nel 2021, 80 g/km nel 2025 per scendere fino a 59 g/km nel 2030) favoriranno ulteriori impennate.

Cosa fanno le aziende?

Tutto questo nuovo scenario destinato a rivoluzionare gli spostamenti di miliardi di persone nel mondo non avrebbe possibilità di esistere senza la presenza di un minerale fino a qualche anno fa negletto, il cobalto. Per fare una batteria di un’auto elettrica ne servono tra gli 8 e i 10 kg e sono pochissimi i luoghi dove è possibile reperirne. Uno di questi è la Repubblica Democratica del Congo. Anzi, è proprio il paese africano, in una sua provincia, il Lualaba, a fornire al mondo una quota incredibilmente alta di questo materiale: il 70 per cento. La crescita esponenziale di domanda di cobalto determinata, dopo smartphone e hi-tech, in gran parte dal mercato delle auto elettriche e ibride ha spostato verso il Congo interessi e relative infrastrutture assieme a mire espansionistiche di grandissime compagnie di tutto il pianeta.

I passaggi della filiera sono sotto osservazione da anni: dal primo livello upstream, l’estrazione, dominato in Congo da giganti come la anglo-svizzera Glencore, la cinese Huayou Cobalt e la svizzera Trafigura, proseguono lungo vari step prima di arrivare fino ai grandi marchi di automotive e hi-tech come Tesla, Ford, Daimler, Renault, Fca, Apple, Dell, Google e tanti altri. Il problema è acuto a monte, dove si scava direttamente nelle miniere. Grazie in gran parte allo sforzo iniziale di Amnesty International - che ha reso al mondo una fotografia reale quanto sconcertante degli abusi compiuti in Congo lungo la catena del cobalto con due impietosi report usciti nel 2016 e nel 2017 a cui hanno fatto seguito altre inchieste e azioni legali - è emerso il losco affare di molti degli operatori. Le violazioni dei diritti di centinaia di migliaia di abitanti dell’ex Katanga tra i quali, secondo l’Unicef, 40mila bambini di età compresa tra i 6 e i 17 anni, sono finalmente emerse e le aziende che hanno chiuso più di un occhio sono state chiamate a rispondere.

Tra le compagnie nel mirino di Amnesty e di vari studi eseguiti fino a oggi sul campo, assieme a molte altre, vi sono Daimler, Fca e Renault. A che punto è il loro percorso di revisione e controllo della filiera? Come hanno reagito alle accuse di corresponsabilità nella sfruttamento di centinaia di migliaia di individui, tra cui una quantità enorme di bambini, e della progressiva distruzione dell’ambiente? Lo abbiamo chiesto direttamente a loro.

Tra i modelli elettrici più venduti in Europa figura la Renault Zoe. Il brand francese sta scalando le classifiche del continente e del mondo e punta ad affermarsi quale leader del settore elettrico. Ma nei report di Amnesty International e nelle successive indagini figurava negli ultimissimi posti nella classifica del rispetto dei diritti e delle successive azioni correttive richieste. In alcuni casi si sintetizza la sua condotta con un perentorio “no action”. «Effettivamente – risponde la casa francese – nel 2016 Amnesty International ha sottolineato come fosse necessario per Renault migliorare la gestione della supply chain in collaborazione con i suoi fornitori di livello 1.

Renault, dopo quel report, si è unita ad altre aziende in iniziative collettive per aumentare l’impatto delle azioni intraprese, è entrata a far parte della Responsible Minerals Initiative e partecipa attivamente ai gruppi di lavoro su Cobalto e Mica. Inoltre il gruppo Renault è membro della Child Labor Platform dell’Organizzazione internazionale del lavoro e ha stabilito e condiviso con i suoi fornitori di livello 1 la politica relativa all’approvvigionamento di cobalto e minerali provenienti da zone di conflitto o ad alto rischio. Inoltre effettua con regolarità una mappatura dei rischi connessi allo sviluppo sostenibile e ha lanciato campagne di audit con società di revisione indipendenti, continuando a monitorare la realizzazione delle azioni correttive». Incalzata da Amnesty, la Renault ha optato per l’incontro diretto. «Ci siamo confrontati con l’Ong sul piano d’azione a breve e lungo termine ed Amnesty ha effettuato una comunicazione a marzo 2019 in cui evidenziava i progressi (“Ci sono stati alcuni progressi dal 2016. In risposta alla ricerca di Amnesty, molte compagnie, tra cui Apple, Bmw, Daimler, Renault e Samsung SDI hanno pubblicato dati riguardanti la filiera», Amnesty challenges industry leaders to clean up their batteries, 21 marzo 2019)”».

La Renault ha quindi iniziato un percorso di trasparenza ed è per esempio tra le pochissime aziende a pubblicare la lista dei suoi raffinatori. Il problema più grosso che emerge leggendola è che tra essi compare il nome della Cdm, la filiale della cinese Huayou in Katanga. International Rights Advocates (il gruppo che ha avviato contro alcuni grandissimi marchi americani una class action che sta provocando scalpore), Amnesty e molte altre Ong concordano nel mettere Cdm sotto accusa per l’impiego sistematico di minori nelle gallerie e all’esterno, per il mancato rispetto di diritti minimi e per i danni all’ambiente. «Cdm è un attore chiave della nostra filiera – dichiara la Renault – e rientra nella catena del cobalto del nostro principale fornitore di batterie. Tuttavia, insieme al nostro fornitore di batterie, abbiamo chiesto a Cdm di trovare modi adeguati per trattare queste inadempienze e rispettare i principi dell’Ocse».

Ma come si fa a valutare se lo sta facendo e a controllare la filiera specie nel tratto upstream? «Sono state effettuate 17 verifiche a opera di una società esterna specializzata in aziende ben identificate e in certe miniere. Abbiamo scelto di effettuare comunicazioni ogni anno a livello globale sui risultati di tali audit, e dato il via a monitoraggi dei piani d’azione correttivi dei fornitori che hanno ottenuto le valutazioni più scarse, con richiesta di procedere obbligatoriamente ad un nuovo audit». Resta da capire cosa si intenda per «trovare modi adeguati», che tipo di audit e quali modalità siano stati adottati. Ma ancora più importante sarebbe conoscere i risultati di tali audit, in particolare capire che effetti hanno su Cdm.

Il silenzio di Fca

Sono tante le richieste di full disclosure poste alle compagnie che utilizzano la filiera del cobalto della Repubblica Democratica del Congo.

Renault non ha ancora soddisfatto questa domanda ma si è impegnata a pubblicare dal 2019 almeno l’elenco dei suoi raffinatori. Sono pochissime le aziende a farlo. Nei casi di Fca e Daimler, ad esempio, non risultano pubblicazioni di fornitori.

La Fca non ha fatto pervenire alcuna risposta alle nostre domande, limitandosi a rimandare al Bilancio di sostenibilità 2019 e a una dichiarazione sulle attività del 2020: «Fca ha esteso il proprio impegno a favorire la sostenibilità dei fornitori unendosi a Drive Sustainability e adottando la piattaforma Nqc, innescando un’indagine sul cobalto per identificare i punti critici e raccogliere informazioni per una due diligence nella filiera. I nostri tre fornitori di batterie per veicoli elettrici (non citati, ndr) sono stati i primi a ricevere la nostra richiesta di fornire il Cobalt Reporting Template, che facilita lo scambio di informazioni lungo la filiera riguardanti il paese di origine del minerale e i fornitori e raffinatori che vengono utilizzati».

In sostanza nel corso del 2020, tramite l’adesione a una associazione di costruttori di auto che lavora specificatamente sulla sostenibilità dei fornitori (Drive Sustainability) e un nuovo tool dedicato (Nqc), Fca ha espanso e rafforzato i propri processi di indagine sui fornitori. È stato poi introdotto un questionario specifico sul cobalto indirizzato ai fornitori di batterie. Fca è entrata a far parte di Fair Cobalt Alliance e della rete Responsible Sourcing Blockchain (Rsbn) per tracciare il cobalto. Sta compiendo passi, quindi, per aggredire le criticità riscontrate lungo la sua filiera. Ma a domande ben precise che diano conto delle azioni concrete, resta evasiva. Ad esempio, in un articolo pubblicato su Forbes che cita un report del World Economic Forum, Michael Posner (direttore del Nyu Stern Center for Business and Human Rights) punta il dito contro quelle compagnie chiamate a «verificare rischi e responsabilità» e a una «azione collettiva sulla catena del cobalto», che risultano «missing from the table».

Tra queste cita Ford, General Motors, Tesla e proprio Chrysler. Non è dato di sapere se, nel frattempo, a quel tavolo si sia pensato di sedersi. Inoltre, Fca non fornisce alcuna lista dei fornitori e non è stato quindi possibile avere notizie riguardo l’eventuale presenza di soggetti attenzionati come Cdm (Huayou) e Glencore.

L’approccio di Daimler

L’approccio di Daimler è probabilmente tra quelli più orientati a favorire lo sviluppo delle comunità locali piuttosto che emendare solamente le bad practice. Nel sito ufficiale si legge che Daimler è impegnata a combattere il lavoro minorile e che ha inaugurato progetti educativi in India e Congo al fine di creare opportunità per la popolazione locale.

«I progetti sociali che puntano a migliorare la qualità della vita della popolazione – dichiara il responsabile della comunicazione Daniel Blatt – si sono dimostrati i più efficaci nel produrre cambiamenti significativi. In Congo la Daimler ha iniziato un progetto con la Good Shepherd International Foundation che ha come obiettivo migliorare entro il 2022 la qualità della vita di più di 19mila persone che abitano nella regione delle miniere di Kolwezi. Abbiamo stanziato più di un milione di euro. Il sostegno a questa iniziativa è indipendente però da quanto Daimler ha deciso di fare sulla catena del cobalto a seguito dei numerosi impulsi provenutici da Ong, comunità locale e lavoratori».

Nel report di Amnesty International del 2017, in cui si valutavano i progressi fatti a seguito della prima dura denuncia del 2016, Daimler figurava nei bassifondi della classifica, sotto un laconico “minimal action”.

«Abbiamo adottato Human Rights Respect System che ci ha permesso di sviluppare un metodo sistematico ed evitare violazioni dei diritti nella filiera. Il nostro è un approccio che valuta il rischio su oltre 60 mila fornitori diretti per identificare ed evitare pericoli ed effetti negativi per le nostre attività commerciali derivanti dal possibile mancato rispetto dei diritti umani nelle prime fasi. Firmando un contratto con Mercedes-Benz, i fornitori si impegnano a identificare le principali aree di rischio e potenziali danni ai diritti umani e adottare misure nel rispetto delle linee guida dell’Ocse. Naturalmente questa è una sfida enorme che non può essere vinta dal giorno alla notte a causa della complessità della filiera. In futuro richiederemo ai nostri fornitori di procurare cobalto solo da fonti certificate».

Detto delle misure adottate per non finire nella black list delle aziende che violano diritti, che cosa fa Daimler in direzione della trasparenza? «Lavoriamo in partnership con la compagnia di audit e consulenza Rcs Global dal 2018. Stiamo creando trasparenza e abbiamo messo a punto una serie di controlli sul rispetto delle linee dell’Ocse riguardo a lavoro minorile, lavoro forzato, salute e sicurezza. Nel corso degli audit non sono state riscontrate violazioni di diritti umani. Tuttavia sappiamo che alcune compagnie spesso sono carenti nei loro sistemi di due diligence.

Dove necessario sono state intrapresi “corrective action plans” e monitoriamo continuamente l’implementazione delle misure correttive. Abbiamo inoltre selezionato alcune miniere in Congo e verificato il rispetto di una serie di richieste specifiche previste dallo Standard for responsible mining (di Irma, Initiative for Responsible Mining Assurance). Con Irma attenzioniamo il materiale estratto e oltre ai diritti fondamentali dei bambini e dei lavoratori, ci concentriamo sui rischi ambientali legati al consumo dell’acqua e alla gestione dei rifiuti».

 

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