Eni fa pubblicità green. «Ma le rinnovabili sono solo lo 0,4% del totale»

«Da energie diverse, un’energia unica» recita lo spot di Eni 2025, mostrando tetti di cascine ricoperti di pannelli solari. In un altro spot, del 2024, vediamo un bucolico paesaggio rurale, pale eoliche all’orizzonte e un’automobile che si ferma di fronte a un gregge di capre: «Forse non l’hai notato, ma è una storia di energia eolica. Con Plenitude le rinnovabili fanno parte della vita di tutti i giorni», spiega la voce fuori campo. Ma quanto sono “diverse” queste energie? Secondo uno studio uscito pochi giorni fa per la rivista scientifica Nature Sustainability, la quota verde di Eni è piuttosto sottile: l’energia primaria da fonti rinnovabile ammonterebbe allo 0,4 per cento rispetto al totale, considerando anche quella prodotta dalle sue controllate, come Plenitude. Ed Eni non è la sola. Eni fa promesse green, nel frattempo viaggia a tutto gas (e petrolio) Molte fra le grandi compagnie petrolifere e del gas continuano a dichiararsi parte attiva della transizione energetica, come dimostrano le due pubblicità della multinazionale italiana. Ma lo studio di Nature Sustainability ne ridimensiona drasticamente il ruolo. Secondo gli autori, ricercatori dell’Istituto di scienze e tecnologie ambientali dell’Universitat autònoma de Barcelona (Icta-UaB), le azioni concrete dell’industria fossile non solo non supportano queste narrazioni, ma rivelano un impegno estremamente marginale nel campo delle energie rinnovabili. Rinnovabili record: il mondo cambia senza l’Occidente Portafogli energetici Basandosi sui dati del Global Energy Monitor, lo studio analizza il portafoglio energetico dei 250 maggiori produttori mondiali di petrolio e gas, responsabili dell’88 per cento della produzione globale di idrocarburi, per valutare la reale incidenza delle fonti pulite nelle loro attività. Il quadro che ne emerge si discosta non poco dalle immagini di bucolici pannelli fotovoltaici e pale eoliche delle pubblicità. Le grandi compagnie del fossile risultano infatti coinvolte in appena l’1,42 per cento dei progetti di energia rinnovabile attualmente operativi nel mondo. Ancora più significativo è il fatto che solo il 20 per cento di queste aziende possieda almeno un impianto rinnovabile attivo, e che la produzione da fonti rinnovabili rappresenti mediamente lo 0,1 per cento della loro produzione complessiva di energia primaria. Si tratta di numeri che ridimensionano drasticamente la portata delle promesse e degli impegni assunti pubblicamente da questi attori industriali, soprattutto alla luce delle sempre più urgenti sfide legate alla crisi climatica. Il contrasto tra comunicazione e realtà è tanto più marcato se si considera che molte di queste compagnie hanno annunciato piani ambiziosi per la riduzione delle emissioni: secondo il gruppo di ricerca Zero Carbon Analytics, quasi un quarto delle 100 principali compagnie oil & gas ha fissato obiettivi di riduzione dei gas serra al 2030, con un taglio medio previsto del 43 per cento. Fare profitti colonizzando la transizione: la nuova via delle multinazionali del fossile Tuttavia, gli investimenti nelle rinnovabili rimangono minimi, al punto che la ricercatrice Kasandra O’Malia, del Global Energy Monitor, ha definito queste dichiarazioni un esempio evidente di greenwashing: «Le compagnie petrolifere e del gas semplicemente non stanno investendo nelle rinnovabili come hanno promesso». Marcel Llavero-Pasquina, autore principale dello studio, è ancora più netto: «La realizzazione di impianti rinnovabili da parte delle compagnie petrolifere e del gas è nel migliore dei casi aneddotica. Il loro contributo alla lotta contro la crisi climatica dovrebbe essere giudicato solo in base alla quantità di combustibile fossile che lasciano nel terreno». Fenomeni climatici estremi. “Il prezzo che paghiamo” per l’avidità delle compagnie fossili La posizione di Eni Eni, da parte sua, ribadisce il proprio impegno nella transizione energetica, ma insiste al contempo sull’«imprescindibile necessità di mantenere un significativo livello di produzione tradizionale». Il report, spiega inoltre Eni, «riguarda la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili rispetto all’energia primaria derivante da idrocarburi, e non la quota di investimenti in rinnovabili». Secondo i loro calcoli la loro quota di energia prodotta da fonti rinnovabili risulta nettamente superiore, includendo però anche la produzione di biocarburanti, che non possiamo però considerare come soluzione a basso impatto: si tratta di un ciclo produttivo ad alte emissioni e alti tassi di deforestazione, spesso in competizione con l’agricoltura alimentare. Quel che è certo, come sottolinea Julia Steinberger dell’Università di Losanna e coautrice del rapporto, le compagnie fossili continuano a investire principalmente in combustibili fossili. E mentre le crisi climatica incalza e le emissioni globali aumentano, «i gruppi di pressione dei combustibili fossili e i think tank continuano a influenzare i nostri politici» partecipando attivamente a vertici internazionali il cui scopo dovrebbe essere proprio affrontare la crisi e dunque, per prima cosa, abbandonare i combustibili fossili. Cop30, Trump non molla il petrolio: ma l’energia pulita è inevitabile Nel 2023, ben 2.456 lobbisti legati ai combustibili fossili si sono accreditati alla Cop di Dubai, 1.773 a quella di Baku lo scorso anno, fra poche settimane sapremo quanti parteciperanno alla Cop 30 di Belem. Se avevamo ancora qualche dubbio, la ricerca di Nature Sustainability conferma che affidare la guida della transizione a chi ha generato la crisi è una scommessa pericolosa. Per Marcel Llavero-Pasquina, non solo queste aziende non sono attori affidabili della transizione, ma dovrebbero essere escluse dai tavoli decisionali sulla politica climatica ed energetica: «Dopo decenni di parole vuote, è ora che i governi, le università e le istituzioni pubbliche riconoscano che l'industria dei combustibili fossili sarà sempre parte del problema, non la soluzione».