Nel giro dei tre anni che vanno dal primo sciopero per il clima alla Cop26 di Glasgow i Fridays for Future italiani hanno vinto la loro battaglia culturale. Le loro ragioni sono diventate, almeno a parole, quelle del governo, al Leaders summit di Glasgow è stato il premier Mario Draghi in persona a riconoscere il ruolo dei movimenti per il clima nella presa di coscienza globale.

A Brescia, dove c’è uno dei gruppi più attivi, si è tenuta l’assemblea di formazione con lo scopo di rispondere a una domanda delicata: Cosa fare da grandi? Come sarà il futuro dopo che ti hanno dato ragione?

Da Brescia in poi

Alok Sharma, behind stage chairs second right, President of the COP26 gets ready for the start of a stocktaking plenary session at the COP26 U.N. Climate Summit, in Glasgow, Scotland, Saturday, Nov. 13, 2021. Going into overtime, negotiators at U.N. climate talks in Glasgow are still trying to find common ground on phasing out coal, when nations need to update their emission-cutting pledges and, especially, on money. (AP Photo/Alastair Grant)

Il prossimo «congresso» nazionale si terrà dopo lo sciopero globale di inizio primavera. Si parla di metà aprile, forse in una delle città simbolo della transizione ecologica (candidate Civitavecchia o Taranto), il lavoro di Brescia serviva a dare struttura, temi e strumenti a un movimento che rischia di diluirsi nel dibattito nazionale.

Siamo alla fine di un ciclo di grande visibilità, in cui concetti e parole d’ordine sono diventati un patrimonio pubblico, un ciclo culminato con la PreCop di Milano, la presenza in strada di Greta Thunberg, il G20 di Roma e infine la grande attenzione intorno al vertice di Glasgow.

La politica italiana però ha il suo metabolismo velocissimo da addomesticare, questo i Fridays lo sanno, e tra pandemia e Quirinale in un attimo i temi ambientali rischiano di tornare sullo sfondo mentre l’Italia si occupa di altro.

I punti più dibattuti a Brescia, infatti, sono stati la comunicazione, il rapporto con la politica e i sindacati.

L’orizzonte, come spiega Giovanni Mori, uno dei sei portavoce nazionali, è «diventare esponenziali su tutto». Cioè, trovare nuova energia, nuovi metodi, un nuovo modo di parlare: «Il nostro obiettivo è tirare dentro persone nuove, tornare a crescere nei numeri».

Sono un movimento giovanile, ma anche nei Fridays italiani si avverte il bisogno di un ricambio generazionale, attirare nuove leve e tornare a essere un punto di riferimento sul territorio: più scuole, più eventi, più proposte, andare oltre il rito fondativo dello sciopero del venerdì.

E la chiave di tutto è la comunicazione. «La nostra grande scommessa è di essere capaci di trovare il nostro linguaggio, che sia a metà tra il rassicurante business as usual e una comunicazione terroristica di collasso imminente», spiega Alice Franchi, altra attivista storica. «E dobbiamo saper coinvolgere anche i gruppi geograficamente più lontani, come quelli del sud Italia».

E la politica?

Nell’ultimo anno, Fridays for Future Italia ha tenuto un filo diretto con le istituzioni, a Milano a margine di PreCop Draghi ha ricevuto Martina Comparelli (una delle figure più in vista del movimento), Greta Thunberg e Vanessa Nakate; con il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani il canale di dialogo è stato conflittuale ma sempre aperto, così come quello con il parlamento. Eppure il giusto dosaggio di confronto con politica e i partiti è uno dei punti che ancora dividono le varie correnti dei Fridays (ne hanno anche loro). «C’è chi vorrebbe chiuderlo del tutto, perché rappresenta un messaggio che noi ci siamo», sintetizza Franchi.

Una linea condivisa su questo punto ancora non c’è, ma la politica intanto non smetterà di cercarli, a caccia di legittimazione più che di idee. Le ultime elezioni amministrative hanno visto singoli attivisti e attiviste entrare nelle liste di diversi partiti e venire eletti nei consigli comunali ed è una tendenza che non si placherà.

«La linea è che Fridays non diventerà ovviamente mai niente di lontanamente simile a un partito, ma i percorsi di vita individuali vanno avanti, c’è chi si impegnerà nel lavoro, chi nell’associazionismo e chi lo farà nella politica in senso stretto», è il punto di vista di Mori. Per reggere questo mescolamento diventa centrale rafforzare l’identità e la credibilità. «Dobbiamo continuare a studiare, conoscere sempre meglio quello di cui parliamo, soprattutto ora che abbiamo iniziato ad andare in televisione. Non siamo più quelli dei cartelli e dei disegnini e dobbiamo dimostrarlo».

Il dilemma tv

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I talk show sono il vero centro della politica italiana, i più pronti a comunicare tra i Fridays hanno iniziato a frequentarli ed è un punto di non ritorno. Nell’assemblea si è discusso se sia opportuno entrare o no nell’arena del superficiale dibattito pubblico, la verità è che sta già succedendo da tempo e pure con discreti risultati. Altro tema delicato è quello del rapporto con i sindacati e infatti i Fridays hanno un gruppo dedicato solo a questo dialogo.

Siamo nella settimana che porta allo sciopero generale di Cgil e Uil. «Non c’è un’adesione ufficiale di Fridays, ma c’è interlocuzione e alcuni di noi saranno sicuramente in piazza con loro. Dobbiamo riuscire a coinvolgerli, perché se non lo faremo noi lo farà Confindustria energia.

È un terreno che non possiamo non presidiare, saper lavorare con i sindacati è una delle sfide per il 2022», dice Mori, che poi fa un accurato elenco di quello che si trovano di fronte per l’anno che verrà: «Il tema del gas, la questione della tassonomia, i soldi spesi per la transizione ecologica, sapremo se l’Italia è in grado di installare le rinnovabili che ha promesso». Ed è l’anno che precederà le campagne elettorali, il corteggiamento tornerà a essere più intenso a pressante. «A noi interessa solo sapere se i partiti hanno voglia di fare sul serio sul clima o no».

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