Arriva l’estate, e con essa i temporali, che hanno tra gli aspetti più affascinanti e al contempo pericolosi i fulmini. Nel momento in cui leggete questa frase, le saette potrebbero aver già colpito la Terra centinaia di volte. Secondo il Met Office del Regno Unito, si verificano circa 44 fulmini al secondo, ovvero oltre tre milioni di fulmini al giorno su scala globale. Con una frequenza così impressionante e secoli di osservazione da parte degli scienziati, si potrebbe pensare che ormai conosciamo tutto sui fulmini. Eppure la loro origine rimane un enigma, almeno in parte. Nel corso della storia, la ricerca sui fulmini ha spinto scienziati e inventori a esperimenti spesso ingegnosi e talvolta bizzarri.

Cosa li scatena

Tra i primi tentativi di comprendere il fenomeno, nel 1752 Benjamin Franklin dimostrò che i fulmini erano un fenomeno elettrico, grazie al suo celebre esperimento dell’aquilone. Da allora, palloni e razzi sono stati inviati nelle nubi temporalesche per studiarne le condizioni, mentre, più recentemente, osservazioni satellitari hanno offerto una prospettiva inedita dall’alto. Nel 2023, un team di scienziati norvegesi ha pubblicato una enorme quantità di nuovi dati raccolti grazie a un gran numero di voli di un “aereo spia” della Guerra fredda adibito alla ricerca scientifica.

Tuttavia, nonostante questo impegno, la domanda fondamentale persiste: cosa scatena esattamente un fulmine? Sappiamo che i fulmini sono gigantesche scariche elettriche che possono colpire il suolo, rimanere all’interno delle nubi o persino propagarsi verso lo spazio. La loro formazione inizia quando particelle di grandine, ghiaccio e acqua si muovono in modo turbolento all’interno di una nube temporalesca, scontrandosi e liberando elettroni. Questo meccanismo genera una separazione di carica: i cristalli di ghiaccio, più leggeri, vengono trasportati in alto e assumono una carica positiva, mentre i grumi di grandine, più pesanti, si accumulano nella parte inferiore della nube con una carica negativa. Il risultato? Un imponente campo elettrico si sviluppa nella nube, mentre un altro accumulo di carica positiva si forma sulla superficie terrestre sottostante. Il sistema diventa una sorta di batteria atmosferica gigante, capace di contenere centinaia di milioni di volt.

Quando il campo elettrico raggiunge un’intensità sufficiente, si forma un canale di scarica estremamente conduttivo, attraverso il quale viaggia il fulmine. Il professor David Smith, esperto di scienze atmosferiche e astrofisica presso l’Università della California, Santa Cruz, descrive questo canale come «molto stretto, molto caldo ed estremamente conduttivo. Si comporta quasi come un filo dentro la nube». Se la dinamica di accumulo della carica è chiara, l’innesco del fulmine è ancora un mistero. Circa il 75 per cento delle scariche avviene all’interno delle nubi, dove il campo elettrico è più intenso.

Come studiarli

Ma cosa fa scattare la scintilla iniziale? Studiare i fulmini è complesso: avvengono in nubi temporalesche, ambienti ostili e difficili da esplorare direttamente.

«E, nei momenti precedenti al fulmine, tutto ci è nascosto alla vista dalle nubi», spiega Smith. Volare attraverso una nube temporalesca è pericoloso, e la maggior parte degli aerei non può raggiungere quote sufficienti per sorvolarle. Per questo la ricerca si è basata principalmente su osservazioni da terra e dallo spazio, con strumenti come l’interferometria radio, che triangola la posizione delle scariche elettriche con una precisione sorprendente.

Un’altra strategia è la generazione di fulmini artificiali nei laboratori. Daniel Mitchard, fisico delle particelle presso il Lightning Laboratory dell’Università di Cardiff, evidenzia l’importanza di questo metodo: «Il vantaggio di un laboratorio è che l’ambiente è controllato e ripetibile». Ma c’è un altro mistero legato ai fulmini che neppure le ricerche nei laboratori sanno spiegare e riguarda il campo elettrico all’interno delle nubi temporalesche. Gli scienziati hanno calcolato l’intensità teorica necessaria per generare una scarica, ma quando hanno misurato direttamente questi campi si sono accorti che non raggiungono mai la soglia prevista. Come è possibile? Joseph Dwyer, professore di fisica e astronomia all’Università del New Hampshire, lo definisce «uno dei più grandi misteri delle scienze atmosferiche». Alcune ipotesi suggeriscono che i campi elettrici necessari si sviluppino in piccole sacche all’interno delle nubi, difficili da misurare. Altri scienziati ipotizzano che i cristalli di ghiaccio possano intensificare localmente il campo, creando micro scariche che si uniscono fino a formare il fulmine. Ma, oggi, molti esperti credono che un altro fattore chiave entri in gioco: le particelle ad alta energia. Si ipotizza che il campo elettrico delle nubi possa accelerare elettroni liberi fino a velocità vicine a quella della luce.

Questi elettroni altamente energetici collidono con altri atomi e innescano una valanga di particelle, un fenomeno simile a quanto accade nelle reazioni nucleari. Sorprendentemente, le radiazioni cosmiche potrebbero avere un ruolo fondamentale: particelle provenienti dallo spazio potrebbero dare il via a questo processo, facilitando la formazione dei fulmini. Queste collisioni rilasciano anche raggi gamma, una forma di radiazione solitamente associata a esplosioni cosmiche come le supernove.

Radiografia delle tempeste

Alcuni esperti ritengono che l’analisi dei raggi gamma emessi dalle nubi temporalesche sia una chiave per sondare i campi elettrici senza alterarne la struttura, avvicinandoci alla comprensione dell’origine dei fulmini. Dwyer descrive questo metodo come una sorta di “radiografia” delle tempeste, che ci permette di osservare ciò che accade al loro interno. Negli anni Novanta, le sonde spaziali della Nasa rilevarono intensi lampi di radiazione dall’atmosfera terrestre, denominati “lampi gamma terrestri” (TGF). Si scoprì successivamente che queste esplosioni energetiche provenivano proprio dalle nubi temporalesche. La loro luminosità è tale da accecare temporaneamente i satelliti in orbita terrestre bassa. Ciò che ha sorpreso maggiormente gli scienziati è che i TGF sono quasi sempre collegati all’attività dei fulmini, rafforzando l’ipotesi che alcuni fulmini possano essere generati da una valanga di elettroni. Dwyer sottolinea che la presenza di raggi gamma indica già un’elevata intensità dei campi elettrici all’interno della nube. Sebbene queste radiazioni possano sembrare inquietanti, gli esperti chiariscono che non rappresentano un pericolo per l’uomo, neanche in caso di fulmine che colpisce un aereo. Oltre ai TGF, i ricercatori hanno identificato un altro tipo di emissione gamma: i “bagliori gamma”, molto più deboli e prolungati, che possono durare da qualche secondo a diversi minuti. Tuttavia, la connessione tra TGF, bagliori gamma e fulmini resta ancora misteriosa. Nel 2023, per approfondire queste dinamiche, l’Università di Bergen ha lanciato una nuova missione nei Caraibi, utilizzando un aereo di ricerca ER-2, un ex velivolo spia riadattato dalla Nasa. Sorvolando le nubi temporalesche a un’altitudine record di 20 chilometri, i ricercatori hanno ottenuto dati dettagliati sui raggi gamma, rivelando lampi più deboli rispetto a quelli osservati dai satelliti. Analizzando le informazioni raccolte in tempo reale, il team ha guidato il pilota dell’ER-2 per seguire da vicino le emissioni gamma, finché il carburante lo ha permesso. La ricerca ha portato alla scoperta di una vasta nube temporalesca che, nei raggi gamma, brillava e pulsava per ore come una pentola in ebollizione. Inoltre gli scienziati hanno individuato un nuovo fenomeno: i “lampi gamma tremolanti”. Questi eventi sembrano essere l’anello mancante tra i TGF e i bagliori gamma e, sorprendentemente, sono strettamente legati ai fulmini. Dopo ciascuno di questi lampi intermittenti, si verificava un’intensa attività elettrica nella nube. Secondo le simulazioni al computer, il fenomeno sarebbe causato dalla produzione di positroni (elettroni con carica positiva), che generano ulteriori valanghe di elettroni in un ciclo di feedback positivo. Questo meccanismo potrebbe essere la chiave per spiegare l’innesco dei fulmini. Curiosamente, i lampi gamma tremolanti da un lato scaricano il campo elettrico in una parte della nube, ma lo intensificano in un’altra, creando condizioni favorevoli alla formazione di fulmini. Dwyer paragona il processo a una protuberanza sul tappeto: premendola in un punto, può spuntare fuori altrove. Spinti dalle loro recenti scoperte, Østgaard e il suo team sono già al lavoro su una nuova missione. Vogliono dotare l’ER-2 di strumenti ancora più sensibili per esplorare il legame tra raggi gamma e fulmini. Ma ogni nuova risposta porta inevitabilmente con sé nuove domande, rendendo la ricerca sui fulmini un enigma ancora in gran parte da decifrare.

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