Poche settimane fa, le immagini provenienti dal Canada hanno fatto il giro del mondo: sono stati sfiorati i 48 gradi e i conseguenti incendi hanno fatto il resto, con la distruzione di ettari di foreste e centri abitati. Le piogge alluvionali in Germania e Belgio hanno riportato il tema dei cambiamenti climatici al centro del dibattito europeo. Anche per questo l’attenzione è massima sul G20 Ambiente, Energia e Clima, che si tiene oggi e domani a Napoli, uno degli eventi più rilevanti nell’agenda della presidenza italiana.

Nel 2020, le emissioni di CO2 sono diminuite di circa il 7 per cento rispetto all’anno precedente, conseguenza delle chiusure volte a contenere la diffusione della pandemia. Ma proprio durante la pandemia, la finanza globale ha continuato a sostenere il settore dei combustibili fossili, a partire dal carbone.

Negli ultimi cinque anni il supporto finanziario concesso al più inquinante dei combustibili fossili non è affatto diminuito, nonostante voci autorevoli ne abbiano chiesto l’immediata interruzione, affiancandosi a quelle delle comunità impattate dalla polvere nera. António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha parlato di «dipendenza mortale» dal carbone, e di come la finanza globale debba fare la sua parte.

Il sostegno al comparto del petrolio e del gas, responsabile del 55 per cento delle emissioni globali di CO2 del settore energetico, non è da meno: 3.800 miliardi di dollari arrivati dalle principali banche mondiali dal 2016, quando è entrato in vigore l’Accordo di Parigi, ad oggi.

Il ruolo dell’Italia

Se la Conferenza sul clima (CoP26) di Glasgow si fosse tenuta regolarmente nel 2020, la finanza globale sarebbe stata tra i principali imputati per la crisi climatica in corso. E anche la finanza italiana, vista la co-presidenza della CoP26 che spetta proprio all’Italia, ospitando a Milano la CoP Giovani e la Conferenza preparatoria tra settembre e ottobre, in vista di quella di Glasgow. Senza dimenticare il G20, che vedrà il suo atto conclusivo a Roma a fine ottobre.

Nelle scorse settimane è arrivato il monito lanciato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie), secondo cui è finito il tempo di finanziare nuove esplorazioni e produzione di combustibili fossili. Una presa di posizione inaspettata, visto che l’Aie stata spesso vicina alle posizioni dell’industria fossile.

Proprio l’Aie analizzerà la sostenibilità del piano di ripresa italiano nella cornice di Next Generation EU, e consiglierà l’Italia in materia di energia e clima in occasione del G20, su richiesta dello stesso governo Draghi. Un accordo siglato lo scorso aprile dal ministero dello Sviluppo economico, con un contratto che prevede un compenso all’Agenzia di circa mezzo milione di euro.

Il triangolo italiano

Sarà interessante conoscere le valutazioni complessive dell’Agenzia sul Sistema-Italia, modello che poggia sul triangolo finanza privata-industria fossile-finanza pubblica, all’interno del quale troviamo soggetti quali Intesa Sanpaolo, Eni e Sace. Tra il 2016 e il 2020, Intesa ha finanziato carbone, petrolio e gas con 44,8 miliardi di euro, di cui 5,4 nel solo 2020, per lo più in società che stanno espandendo il proprio business fossile.

Eni, controllata dallo Stato italiano, cita spesso le analisi dell’Agenzia nei suoi vari report, al fine di dimostrare la compatibilità del suo piano di decarbonizzazione con la necessaria transizione. Ma proprio qualche giorno fa ha inaugurato un nuovo giacimento in Indonesia, e continua a investire massicciamente nell’esplorazione di nuove riserve di idrocarburi.

Infine c’è Sace, agenzia pubblica di credito all’esportazione controllata di Cassa Depositi e Prestiti, recentemente passata sotto il controllo del ministero dell’Economia: dal 2016 al 2020, ha supportato il comparto del petrolio e del gas con 8,6 miliardi di euro.

Diversamente da competitor italiani ed europei, Intesa ha adottato un doppio standard tra paesi Ocse e quelli “in via di sviluppo” che le consentono di continuare a finanziare il carbone nei Balcani, in Asia e in Africa. 

Se i rischi connessi alla produzione di idrocarburi presentano caratteristiche comuni a ogni latitudine, nell’Artico questi aumentano esponenzialmente: le condizioni estreme della regione non fanno che accrescere le possibilità di fuoriuscite e incidenti, minacciando ecosistemi già fragili. Nell’estate 2020, l’artico siberiano è stato colpito da più di 300 grandi incendi e da uno dei peggiori disastri petroliferi nella sua storia.

Nel 2020, Intesa ha finanziato e investito in società in prima fila nello sfruttamento delle risorse artiche, in particolar modo Eni, Equinor, Total e ConocoPhillips, per un totale di circa 1,4 miliardi di euro.

La piattaforma Goliat, in capo a Eni ed Equinor nel Mar Glaciale Artico, produce più di 100mila barili di greggio al giorno, e nel 2022 si dovrebbe aggiungere la produzione dal giacimento Johan Castberg. La corsa alle risorse naturali del Mar Glaciale Artico sembra solo iniziata, come testimoniano le 70 licenze offerte di recente dal governo norvegese.

Arctic LNG-2 nei giorni del G20 

(Alexei Druzhinin/Pool Photo via AP)

Nell’artico russo, il colosso francese Total e la società russa Novatek detengono l’impianto di liquefazione di gas fossile Yamal LNG, finanziato nel 2016 proprio da Intesa con un’operazione da 750 milioni di euro garantita da Sace per 400 milioni. Stessa sorte spetterà al progetto Arctic LNG-2, di cui manca solo l’ufficialità.

Arctic-LNG 2 è un enorme impianto di liquefazione di gas, progettato per esportare gas fossile estratto dal vicino deposito di Utrenneye. L’impianto, operativo dal 2023, sarà in grado di produrre 20 milioni di tonnellate di gas liquefatto all’anno, proveniente dagli enormi giacimenti sotto la calotta artica.

Una volta trasformato in forma liquida, il gas sarà esportato principalmente verso l’Asia e in Europa, sfruttando le rotte marittime aperte proprio in seguito allo scioglimento dei ghiacci causato dal riscaldamento globale.

Il costo del progetto è di 21,3 miliardi di dollari, metà dei quali in capo alle società coinvolte, l’altra sarà raccolta attraverso prestiti provenienti da banche commerciali russe, asiatiche ed europee, garantiti dalle rispettive agenzie di credito all’esportazione.

Con l’appoggio di Sace, gli investimenti in Total, le buone relazioni che intercorrono con Novatek – e in generale con Mosca – e le manifestazioni di interesse al progetto esplicitate a mezzo stampa già alla fine del 2019, il supporto finanziario di Intesa Sanpaolo sembra scontato. Un finanziamento che, nel caso il progetto subisca un’interruzione – probabile in quella regione - potrebbe costare ai contribuenti italiani circa 1 miliardo di euro. La cifra, garantita da Sace, servirebbe a supportare le società private italiane coinvolte nell’opera: Saipem, controllata da Eni e Cassa Depositi e Prestiti, e Nuovo Pignone, controllata della statunitense Baker Hughes.

Il 23 giugno 2021, Sace ha annunciato l’inizio della valutazione ambientale del progetto Arctic LNG-2. Una procedura che, secondo i regolamenti dell’OCSE, le agenzie pubbliche di credito all’esportazione adottano un mese prima di autorizzare la garanzia al credito per il progetto. Luce verde che, dunque, arriverà proprio nei giorni del G20 Ambiente, Energia e Clima.

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