L’aumento esponenziale del prezzo del gas è una pessima notizia di fine anno che rischia di pesare sulla ripresa economica e sulle speranze per gli investimenti che si stanno sbloccando grazie a Next Generation Ue. Le conseguenze più pesanti le stanno subendo le imprese energivore e le vedranno nelle prossime bollette le tante famiglie che già oggi faticano a pagare il riscaldamento delle proprie abitazioni.

Bene ha fatto il governo a intervenire con provvedimenti d’urgenza per ridurre l’impatto ma non basta. E proprio ora è il momento di aprire una riflessione e un confronto politico all’altezza delle sfide che i prossimi anni porranno di fronte al nostro paese e all’Europa.

L’emergenza dei costi del gas dipende da una concatenazione di situazioni geopolitiche che sono fuori dalle nostre possibilità di previsione e controllo, tra Russia, Ucraina e Libia.
Invece di reazioni isteriche per cui si ridà spazio a chi propone nuovi reattori nucleari di quarta generazione, oggi a uno stadio sperimentale, o a chi propone di sfruttare tutto il gas nei mari italiani - che si esaurirebbe in poco più di un anno - occorre una strategia per ridurre l’incertezza.

La necessità degli stoccaggi

La prima è costruire una politica europea per la sicurezza di approvvigionamenti e stoccaggi di gas, rafforzando il mercato interno e le connessioni tra i paesi, perché solo in questo modo il continente che più sta accelerando sull’uscita dalle fossili sarà in grado di resistere alle tempeste di un mercato globalizzato in cui i singoli stati risulteranno sempre più deboli.

La transizione energetica verso le rinnovabili è l’unica strada possibile per ridurre la dipendenza dall’estero, ma durerà almeno due decenni. Bisogna costruire una visione geopolitica condivisa con gli altri paesi su come rendere meno incerti i prossimi anni, mentre si riducono i consumi di gas grazie alle fonti rinnovabili e all’efficienza energetica.

Se stiamo a quanto scritto nei provvedimenti approvati ci vorrà più di un anno prima di vedere nuove regole per l’approvazione di impianti da fonti rinnovabili e ancora di più prima di averli per quelli eolici in mare. Possiamo permetterci di aspettare così tanto?

Dare la colpa agli altri

LaPresse

Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani è solito ripetere che le colpe sono delle regioni e delle sindromi Nimby, che il governo ha fatto tutti i compiti assegnati dal Recovery Plan, ma rinvia alla prossima legislatura l’accelerazione degli interventi di cui il nostro paese avrebbe bisogno, oggi più che mai.

Se avesse davvero a cuore gli interventi per dare un’alternativa a famiglie e imprese, dovrebbe presentare subito i decreti previsti di semplificazione e accelerare l’attuazione di quanto previsto dalle direttive europee in materia di condivisione di energia, perché nei distretti produttivi e nei quartieri si possano installare da subito impianti solari fino a un megawatt nei nuovi modelli di comunità energetiche.

Ma interessa davvero a qualcuno ridurre i consumi di gas in Italia? Perché nell’ultimo rapporto Enea si legge che le politiche in vigore per migliorare l’efficienza energetica dei processi industriali, i certificati bianchi, e per la riqualificazione del patrimonio edilizio (tra superbonus, ecobonus e conto termico) stanno producendo risultati inadeguati come quantità e troppo lenti rispetto a quanto sarebbe nel nostro interesse per spendere meno.

L’Italia può diventare un laboratorio di innovazione che sperimenti i vantaggi di un modello di autoproduzione, condivisione e accumulo di energia prodotta dal sole e dal vento. Come si potrebbe realizzare a partire da Sardegna e Sicilia, e come potremmo candidarci a esportare in tanti paesi del mediterraneo da cui oggi le persone sono costrette a emigrare perché senza speranza.

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