Russia, Australia, Brasile, Arabia Saudita, Indonesia, Messico: con una terminologia presa da altri contesti e altre battaglie li potremmo definire «stati canaglia del clima».

Mentre Cina, Europa, Regno Unito hanno alzato il tiro dell'ambizione, presentando i nuovi impegni quinquennali come previsto dall'architettura degli accordi di Parigi, e mentre gli Stati Uniti di Joe Biden ci rientreranno con un ambizioso piano di mitigazione, questi sono i paesi che stanno rallentando la corsa globale alle decarbonizzazione.

Non hanno partecipato al Climate Ambition Summit, organizzato dall'Onu per celebrare e rilanciare gli accordi di Parigi, perché non avevano impegni da prendere o perché i loro impegni non sono stati giudicati credibili.

Sono le cattive notizie sulla strada del contenimento del riscaldamento globale ben sotto i 2° C, defezioni che hanno un valore politico che va anche oltre il 15% di emissioni che rappresentano.

Non sono scelte sostenibili dal punto di vista ambientale e non lo è il fatto che un terzo dei paesi G20 continui a bruciare combustibili fossili, mentre gli altri due terzi provano a rallentare.

Russia

(AP Photo/Dmitry Balakiev)

Nel corso del 2020 Vladimir Putin ha annunciato l'obiettivo di tagliare le emissioni di gas serra del 30 per cento entro il 2030 (contro il 55 per cento europeo e il 68 per cento britannico, per fare un confronto).

È un obiettivo che consentirà alle emissioni di crescere ancora per diversi anni: se il mondo bruciasse combustibili fossili al ritmo russo l'aumento della temperatura globale sarebbe di 4° C, altro che il «ben sotto i 2 ° C» previsto da Parigi. Secondo gli analisti indipendenti di Climate Action Tracker, le promesse di Putin sono «gravemente insufficienti».

La Russia è il primo esportatore globale di gas, il secondo di petrolio e il terzo di carbone, quindi non ha nessuna fretta di decarbonizzare.

L'obiettivo dichiarato è la neutralità climatica nella seconda parte del 21esimo secolo, più vicino alla fine, quindi dal 2075 in poi. Le trivellazioni artiche aumenteranno di dieci volte entro il 2035, con la diminuzione della domanda a ovest cresceranno le esportazioni a est, grazie alla nuova pipeline verso Pechino.

Australia

La resistenza australiana a fissare obiettivi ambiziosi di decarbonizzazione è tutta in un numero: 44 miliardi, il valore in dollari delle esportazioni di carbone nel 2019. Il carbone è la più sporca delle fonti energetiche e l'Australia è il suo principale produttore.

La strenua difesa delle miniere ha fatto del primo ministro Scott Morrison una specie di "Trump down under”, nonostante il fatto che il suo paese sia uno dei più colpiti dal cambiamento climatico. L'immagine di Morrison sarà per sempre legata al grumo di carbone che portò in parlamento nel 2017, dicendo: «Non abbiatene paura». Al momento non c'è un obiettivo di neutralità climatica e il piano è ridurre le emissioni del 26-28 per cento entro il 2030.

Il governo ha attaccato il gruppo bancario ANZ per la sua politica di disinvestimento dalle centrali a carbone. Adam Bandt, leader dei Verdi australiani, ha definito Morrison il «Kim Jong-un del clima».

Brasile

I dati del 2020 sulla distruzione della foresta amazzonica sono spaventosi, i più alti degli ultimi 12 anni, e hanno contribuito a rafforzare il posto del presidente Jair Bolsonaro tra i grandi nemici della mitigazione climatica.

L'esclusione dal Climate Ambition Summit però è arrivata a sorpresa, il presidente era convinto di parlare al meeting virtuale dell'Onu e aveva già preparato il suo discorso, con l'annuncio di un obiettivo di neutralità climatica entro il 2060.

L'impegno brasiliano è stato però giudicato vago e poco credibile e probabilmente le immagini dell'Amazzonia devastata non hanno aiutato, così come le dichiarazioni di sovranismo climatico degli ultimi anni.

Bolsonaro ha accusato gli accordi di Parigi di violare la sovranità nazionale e il suo ministro degli esteri Ernesto Araújo sostiene che il cambiamento climatico sia un'ideologia di sinistra. L'attuale obiettivo di riduzione per il 2030 è del 37 per cento, il governo chiede anche 10 miliardi di dollari in contributi globali per arrivarci, ma misure e strumenti al momento sono stati giudicati insufficienti.

Arabia Saudita

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Al G20 di Riyadh a novembre l'Arabia Saudita era riuscita a strappare ai paesi europei l'approvazione del discusso concetto di «circular carbon economy», economia circolare carbonica, non esattamente la via maestra per la decarbonizzazione, una prospettiva basata sullo sviluppo di tecnologie ancora estremamente teoriche nel loro uso su larga scala, come la cattura e lo stoccaggio dell'anidride carbonica.

Per il principale esportatore di petrolio al mondo, i progressi nella Vision 2030 di diversificazione energetica ed economica sono stati finora lenti: nel 2019 sono stati aggiunti solo 0,4 GW di rinnovabili e sono rallentate le ambizioni di sviluppo del nucleare. Insomma, per ora è ancora tutto greggio.

Il regime saudita ha anche un problema di trasparenza dei dati, ma le proiezioni di Climate Action Tracker parlano di un aumento previsto delle emissioni del 75-95 per cento entro il 2030.

Gli altri

L'Indonesia è una delle economie più compromesse col carbone, per esportazioni è seconda soltanto all'Australia. Ha inoltre un enorme e mai risolto problema di deforestazione. L'obiettivo attuale è ridurre le emissioni del 29 per cento entro il 2030 o del 41 per cento, ma con l'aiuto di massicci aiuti internazionali.

È anche tra i pochi paesi che stanno costruendo nuove centrali a carbone (+27 GW previsti entro il 2028).

Ai margini della battaglia climatica c'è anche il Sudafrica di Cyril Ramaphosa, le cui promesse sono state giudicate inadeguate e non realistiche.

Il Sudafrica ha previsto la neutralità climatica per il 2050, ma l'obiettivo è incompatibile con il progetto di continuare a operare le centrali a carbone per quella data. Il Messico durante la pandemia ha bloccato i nuovi investimenti previsti in fonti energetiche rinnovabili, dirottando i fondi verso le già esistenti centrali alimentate da fonti fossili. Infine c'è il caso della Nuova Zelanda di Jacinda Arden.

La premier nel 2020 ha dichiarato lo stato di emergenza climatica, ma il suo governo è accusato (anche da Greta Thunberg) di fare molta retorica e poca azione.

Solo 12 paesi industrializzati su 43 hanno visto le emissioni nette aumentare dal 1990 a oggi e la Nuova Zelanda non solo è fra questi ma è anche al secondo posto (dietro la Turchia).

Gli obiettivi previsti dagli accordi di Parigi non sono stati aggiornati e quelli del 2015 prevedevano l'esclusione dell'agricoltura e dei rifiuti (il 40 per cento del totale) dal conteggio. 

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