La somma è 15 volte superiore al budget annuale della ong. Al centro del caso il Dakota Access Pipeline, un oleodotto sotterraneo che, tra il 2016 e il 2017, ha scatenato le proteste di ambientalisti e nativi della riserva Sioux di Standing Rock, che hanno ottenuto la deviazione del percorso. L’azienda costruttrice ha chiesto (e adesso ha ottenuto) un maxi-risarcimento, accusando Greenpeace di aver guidato la rivolta e diffuso disinformazione. I legami del CEO con l’amministrazione Trump
Il Dakota Access Pipeline è un oleodotto sotterraneo di quasi 2.000 chilometri che, fra il 2016 e il 2017, ha fatto convergere in North Dakota attivisti ambientali e nativi da tutti gli Stati Uniti in una protesta che oggi rischia di costare la vita a Greenpeace. Il Dakota Access Pipeline parte dalla Bakken Formation, uno dei più grandi bacini petroliferi al mondo, fra il Montana e il North Dakota, al confine con il Canada: da lì, passando sotto il letto del fiume Missouri e attraversando il South Dakota e l’Iowa, raggiunge l’Illinois.
Poco lontano dal suo cammino si trova la riserva Sioux di Standing Rock. Furono gli abitanti della riserva, per primi, a opporsi alla costruzione dell’oleodotto. Oltre ad attraversare (e danneggiare) terre a loro sacre, il passaggio dell’oleodotto rappresentava un forte rischio in termini di inquinamento per il Missouri, principale risorsa idrica dei nativi.
Nel 2016 la protesta dei Sioux si trasformò in un simbolo, un po’ come è accaduto in Italia con la Tav: divenne la lotta di tutti, a cui si unirono migliaia di attivisti ambientali e altre tribù fra cui i Lakota e i Crow, storicamente nemici dei Sioux. Passarono mesi intensi: la polizia reagiva alle manifestazioni con idranti, taser e fumogeni.
In una sola giornata di novembre si raggiunsero i 300 feriti. Mesi di azioni dimostrative, manifestazioni, scontri con le forze dell’ordine portarono però a una parziale vittoria: il percorso dell’oleodotto venne in parte deviato.
La richiesta di risarcimento
Nel 2019 Energy Transfer, l’azienda costruttrice dell’oleodotto, ha imbarcato Greenpeace International e USA in un processo con l’accusa di aver guidato le proteste contro il Dakota Access Pipeline e soprattutto di aver diffuso disinformazione riguardo ai rischi comportati dalla costruzione dell’oleodotto, danneggiando economicamente l’azienda.
È interessante osservare che il periodo fra il 2016 e il 2020 è quello della prima presidenza Trump, il quale in passato aveva investito oltre mezzo milione di dollari nella società, mentre a sua volta il CEO di Energy Transfer aveva donato 100mila dollari alla sua campagna elettorale per le elezioni del 2016.
La sentenza
E così arriviamo a oggi. La sentenza era attesa per il 19 marzo ed è spaventosa. La cifra richiesta dall’accusa era già altissima, circa 300 milioni di dollari, e già Greenpeace si era detta molto preoccupata. Ma il verdetto va oltre ogni aspettativa, ed è difficile non vederlo come tassello di un mosaico più ampio.
La giuria di Mandan (North Dakota) che aveva in mano il caso ha dichiarato la ong responsabile per 667 milioni di dollari. Più del doppio. Una somma quindici volte superiore al budget annuale di Greenpeace Usa e che sembra avere l’obiettivo esplicito di portarla al fallimento economico, in accordo con il clima politico di profonda criminalizzazione dei movimenti e delle associazioni ambientaliste negli Stati Uniti.
Nei suoi primi due mesi e mezzo al governo, il neo presidente Trump ha dichiarato di volersi ritirare dagli Accordi di Parigi, e fin qui niente di inaspettato. Ma sta anche smantellando con furia certosina l’intero sistema di controllo, azione e protezione di fronte alla crisi climatica, licenziando centinaia di scienziati delle agenzie federali ambientali, come l’Epa (Environmental protection agency) e la NOAA (National oceanic and atmospheric administration), oltre a personale nel National park service e del Servizio forestale degli Stati Uniti. E questo è il turno di Greenpeace, fra le organizzazioni ambientaliste più solide e radicate al mondo, oltre che più capaci, in oltre 50 anni di attività, di rinnovarsi e situarsi nel presente.
Un disegno ben preciso
L’operazione di Energy Transfer si inserisce in una strategia ben precisa e codificata, ha anche un nome: si chiama SLAPP, ossia Strategic lawsuit against public participation. Sono cause fatte apposta per mettere a tacere e intimidire, per dissuadere dall’intraprendere qualsiasi forma di protesta. In questo caso, anche dall’esprimere dissenso: l’accusa principale è di diffamazione.
Se informare riguardo ai rischi comportati dalla costruzione di un oleodotto, un rigassificatore o una centrale nucleare diventassero “diffamazione”, sarebbe un disastro. L’Unione europea ha una norma a tutela dei cittadini, gli Stati Uniti no.
Per questo l’obiettivo è portare il seguito del processo in Olanda. Già dal 2024 infatti Greenpeace International ha avviato il primo test della Direttiva anti-SLAPP dell'Unione europea presentando un’azione legale contro Energy Transfer.
«Stiamo assistendo al pericoloso ritorno degli stessi comportamenti che hanno alimentato la crisi climatica. La precedente amministrazione Trump aveva passato quattro anni a smantellare le politiche di protezione dell'aria e dell'acqua e la sovranità indigena. Ora vuole finire il lavoro zittendo ogni forma di protesta pacifica. Non ci tireremo indietro. Non ci faremo mettere a tacere», ha dichiarato nel comunicato stampa Mads Christensen, direttore esecutivo di Greenpeace International.
Aspettiamo il seguito, confidando nella forza di Greenpeace nel salvare, questa volta, se stessa.
© Riproduzione riservata