Non esiste conversazione sul clima che abbia senso politico senza includere gli adolescenti e i ventenni, quelli che erediteranno le colpe, i risultati e le azioni di oggi. Il dibattito globale sull'ambiente, da Rio 1992 in poi, non era strutturato per coinvolgerli, i giovani lo spazio politico se lo sono preso con le piazze, le manifestazioni, gli scioperi, i Fridays for Future, che hanno imposto idee, prospettive, paura e anche volti nuovi, cresciuti al traino di Greta Thunberg.

Il 28 settembre 2021, a Milano, avranno finalmente il primo luogo istituzionale di negoziato, l'incontro globale Youth4Climate, preparazione alla Cop 26, l'evento di novembre a Glasgow. I moderatori degli incontri di preparazione verso Milano sono due nomi che sentiremo a lungo. Ahmed Badr, ex rifugiato iracheno, scrittore, imprenditore sociale, e Salina Abraham, consulente dell'Onu, diventata negli ultimi anni una delle voci più nette del movimento giovanile contro i cambiamenti climatici.

Abraham è figlia di rifugiati eritrei, è nata ad Amsterdam ed è cresciuta a Seattle, negli Stati Uniti. La diseguaglianza climatica è nella storia della sua famiglia, originaria di questa terra tra il Sahel e il Sahara che sta subendo in modo drammatico gli effetti della desertificazione. Anche per rispetto di questa eredità, «e per poter portare un giorno i miei figli a visitare il luogo delle origini e avere ancora qualcosa da mostrare», che Abraham è diventata attivista per il clima.

Come rappresentante della International Forestry Student’s Association ha partecipato a tutti i summit per il clima degli ultimi anni. La sua prima volta fu proprio a Parigi, nel 2015. «Un ministro dell'ambiente mi disse: questo accordo è il frutto della mia vita, ora però tocca a voi», racconta.

Sono passati cinque anni dagli accordi di Parigi, qual è il suo bilancio?
«Sono ottimista per natura, coltivo la speranza, ma se guardiamo al lavoro che è stato fatto in questi cinque anni, non è minimamente vicino a quello che andrebbe fatto ed è spaventoso constatarlo. Si mettono sul piatto impegno e promesse, ma non azione, nessuna misura è abbastanza concreta».

Cosa le dà speranza allora?
«Nel 2015 non avevamo un movimento di massa per l'azione climatica, oggi sì, le persone sono scese in piazza, hanno iniziato a informarsi, a farci caso, a sapere. Questo movimento è un catalizzatore di azione politica. È questo a darmi speranza e nelle battaglie per il clima la speranza è tutto».

Che ruolo dobbiamo dare ai giovani come lei?
«I giovani sono un gruppo di persone diversificato. Gli attivisti più piccoli, dai 13 ai 18 anni, chiedono che gli adulti facciano il proprio lavoro, nel frattempo si stanno istruendo, stanno già studiando e sono terrorizzati dall'immobilità. Poi ci sono quelli della mia età, fino ai 30 anni: noi vogliamo contribuire alle soluzioni, abbiamo idee da offrire e vogliamo sederci al tavolo. Oggi non c'è abbastanza spazio per noi, il nostro lavoro non viene considerato come tale, non è preso come un contributo reale. Noi chiediamo ascolto e fiducia».

Per le persone più adulte è difficile capire le paure che può avere un giovane rispetto alla questione climatica. Me ne può parlare?
«Come esseri umani non siamo bravi ad accettare le cattive notizie, è più comodo vivere nel momento, convinti che la vita continuerà più o meno come ha sempre fatto. La scienza e i fatti però ci raccontano un'altra storia, che l'esistenza dell'umanità è a rischio. Tutto quello che stiamo studiando ci terrorizza, e ancora di più il fatto che nessuno presta vera attenzione. È una paura dura da reggere, l'immobilità è frustrante, soprattutto ora che la pandemia ha mostrato quanto sia fragile il nostro sistema. La nostra paura deriva dal senso di impotenza, quello che oggi i giovani fanno è reclamare potere per avere voce, influenza e un ruolo. Non vogliamo più stare in panchina».

Che tipo di spazio politico chiedete?
«Un cambio di paradigma su come si pensa ai giovani, a quello che hanno da offrire, innovazione, creatività, libertà dalle convinzioni consolidate su cosa è possibile e cosa non lo è. Siamo qualificati per maneggiare il potere, che invece è spesso in mano a persone vicine o oltre l'età della pensione, come le elezioni presidenziali americane ci hanno dimostrato. Le nostre prospettive vanno incluse nelle decisioni, servono canali politici di ascolto, oggi c'è una marea di barriere contro una partecipazione reale, l'evento di Milano è un buon inizio per abbatterle».

In un incontro organizzato all'Onu aveva parlato del rischio «etichetta permanente di giovane». Cosa intendeva?
«Che è comodo prendere una sola persona giovane, portarla nel dibattito, caricarla di tutto il peso della conversazione e dire ok, vedete? Abbiamo ascoltato i giovani, abbiamo fatto quello che dovevamo fare, ora andiamo oltre, con i giovani abbiamo risolto con questa figurina. È un modo di fare che blocca il contributo che possiamo portare, una persona sola non può avere il peso di compensare il gap di un'intera generazione».

Uno dei problemi della conversazione sul clima è che tende a rimanere dentro una bolla, come se ne esce?
«Per me la misura del successo è riuscire a interessare le mie sorelle, che non seguono questi temi, hanno altri pensieri, altre passioni e non ho idea di dove si informino. Serve un linguaggio che ti porti di peso nelle storie, che si possa leggere e capire al volo e purtroppo questo non succede, ci si parla spesso tra persone che già sanno. Serve un'evoluzione del linguaggio, tradurre i principi scientifici in concetti chiari e facili. E poi servono storie di speranza e possibilità, non solo di apocalisse imminente. Ci vuole l'idea che tutti possano essere gli eroi di questa storia, non basta l'urgenza delle evidenze, bisogna aggiungere la sensazione che si può fare qualcosa, altrimenti le persone chiudono gli occhi e dicono: tanto che ci posso fare io?».

E ai media cosa chiedete?
«Nessuno ha il potere dei media nel dare forma alle percezioni. Serve un modo di trattare il clima meno pigro, che non si esaurisca all'intervista allo scienziato o al flusso delle notizie politiche. Dovete raccontare storie di persone, di comunità e dei loro tentativi di cambiare le cose. Bisogna ispirare, dovete occuparvi del lavoro della speranza. La mia sintesi è: comunicate la minaccia ma anche la speranza».

Che impatto ha avuto la pandemia sulla sua generazione di attivisti per il clima?
«Abbiamo visto che i governi hanno la capacità di intervenire, di fare le cose. Oggi abbiamo l'opportunità di una ripresa verde, e questa opportunità per ora la stiamo sprecando, non viene colta sulla scala sulla quale deve essere colta. C'è un'opportunità di cambiamento che non viene compresa in pieno. Poi per noi è stata dura, perché prima del Covid il movimento aveva conquistato tanto campo, aveva preso trazione, è stato difficile fermare tutto, ma sono felice che abbiamo trovato il modo di usare altre strade, nuovi modi per fare attivismo. La lezione più grande è che le cose terribili succedono, ma c'è anche il potere per intervenire».

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