C’è un inevitabile simbolismo nel fatto che il G20 dei ministri delle Finanze si svolga in presenza a Venezia, metafora visiva perfetta per i rischi urbani del cambiamento climatico. La settimana scorsa una ricerca Ispra aveva parlato di «irreversibile innalzamento dei mari» e misurato in 5,34 millimetri l’anno la perdita di terreno della città rispetto all’emergenza. Sarebbe interessante sapere se Janet Yellen e Daniele Franco parleranno anche della subsidenza di Venezia a margine di un incontro che ha un grande significato per il ruolo della finanza nella sfida climatica.

Come ha scritto Sima Kammourieh, senior policy advisor di E3G, «il futuro della Cop26 passa dal G20 di Venezia». Dal momento che il futuro climatico del mondo passa dalla Cop26 di Glasgow, questo summit è un passaggio importante a metà dell’anno decisivo. Dopo un G7 storico in materia di fisco ma con poca ambizione sull’ambiente, il miglior esito possibile del G20 che si chiude domani con la conferenza sul clima è una “agenda Venezia” con risorse, strumenti, priorità e solidarietà globale.

Lo schema vaccini – prima ci salviamo noi, poi vediamo – è stato terribile per la pandemia, sarebbe catastrofico sull’ambiente. Un punto di osservazione utile per mettere in prospettiva il G20 finanze è un altro incontro a 20 (anche se i paesi aderenti sono 48): il V20, il Vulnerable Twenty, il gruppo che racchiude i paesi più a rischio per l’emergenza climatica, Maldive, Sri Lanka, Costa Rica, Senegal, quelli per i quali, come ha detto il segretario generale dell’Onu, António Guterres, «stare nei parametri dell’accordo di Parigi è una questione di vita o di morte». Il consesso delle vittime si è riunito un giorno prima del G20 per provare a dettare l’agenda.

Da un lato i rappresentanti di 1,2 miliardi di persone responsabili per il 5 per cento delle emissioni globali, dall’altro quelli di più di 3,5 miliardi di persone e dell’80 per cento delle emissioni. È questa la faglia all’interno della quale si stanno svolgendo le conversazioni sul clima a Venezia. I Vulnerable Twenty hanno implorato i paesi più ricchi di mantenere e rafforzare le promesse per la finanza climatica: innanzitutto completare la colletta da 100 miliardi di dollari per sostenere l’adattamento e la mitigazione nei paesi più colpiti. Sulla sua quota, l’Italia è il paese del G7 più in ritardo.

I sei anni più caldi

La Cop26 di Glasgow a novembre sarà erede di Parigi 2015, ma avrà alle spalle i sei anni più caldi della storia, una pandemia, il rapporto catastrofista dell’Onu filtrato un paio di settimane fa (un film apocalittico sotto forma di dati e previsioni) e la responsabilità di gettare in due settimane le basi per il decennio decisivo sul clima. Uno dei focus sarà proprio la finanza climatica, tema che dipende dalla generosità dei paesi G20.

Per questo le conclusioni di Venezia saranno importanti: l’obiettivo è alzare il livello dei fondi dai paesi ricchi e inquinanti a quelli poveri, ma intanto anche raggiungere la quota 100 miliardi promessa a Parigi sarebbe un risultato. Tra gli strumenti finanziari per i quali serve un’agenda Venezia c’è anche un maggiore respiro per i paesi deboli sul debito. Nel 2020 cinque hanno fatto default (Argentina, Suriname, Libano, Zambia ed Ecuador), 72 sono considerati vulnerabili dall’Onu, 19 gravemente vulnerabili.

Non possono navigare la crisi climatica e contemporaneamente quella debitoria. L’altro fronte aperto sono le riforme per rendere la finanza uno strumento di azione ambientale. I tavoli aperti sono tanti: standard di tassonomia globale, allineamento delle banche multilaterali di sviluppo all’accordo di Parigi, rendicontazione ambientale trasparente degli investimenti. Ma la linea di conflitto vera è la carbon border tax per colpire il contenuto di emissioni nei prodotti lungo le filiere globali.

È un’antica battaglia europea, piace poco agli Usa, per niente a Cina e India. È una delle principali fonti di disaccordo quando si parla di finanza, fiscalità e clima. Il commissario Paolo Gentiloni ha aperto le ostilità: «Per una tassazione green ora o mai più», ha detto, prima di annunciare le misure europee in arrivo, tra cui il meccanismo di aggiustamento del prezzo del carbonio alle frontiere. In pratica la carbon tax, una misura sulla quale ci sono idee molto diverse dai due lati dell’Atlantico.

Già a marzo Kerry aveva avvisato che questa misura rischia di avere «serie implicazioni sulle economie, le relazioni e il commercio». A Venezia Yellen ha usato i toni felpati di chi è abituata a parlare ai mercati, spiegando che la posizione Usa è concentrarsi sulle policy dei singoli paesi e non su un prezzo esplicito al carbonio stesso.

Tradotto: se tutti fanno i compiti a casa, ci sono strade migliori di una tassa globale. Secondo Luca Bergamaschi del centro studi sul clima Ecco una carbon tax è «più uno strumento di pressione che una strada praticabile a livello globale, anzi, rischia di esacerbare relazioni già difficili con Cina e India, minando la cooperazione internazionale». Sulla retorica per il clima i paesi G20 sono sulla stessa linea. Sulle soluzioni, ci stiamo ancora lavorando, ma a Glasgow mancano solo tre mesi.

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