Non dimentichiamolo mai: qualunque crisi – e quelle sanitarie non sono un’eccezione – è, anzitutto, una crisi del linguaggio, cioè della nostra capacità di raccontare il problema e, dunque, di intenderlo in vista di una legittima soluzione. Qui si continua a pescare dal repertorio dei vecchi clichés e a sprecare occasioni d’oro, facendo un torto a sé e agli altri.

Penso principalmente alle metafore belliche. Siamo ancora a quelle: la guerra, il nemico, l’invasione, l’attacco, la difesa, le armi, le vittime… Perché queste metafore non vanno? Perché non spiegano nulla e perché, come già decenni fa ammoniva Susan Sontag in due saggi ancora fondamentali (Malattia come metafora e l’Aids e le sue metafore, pubblicati nel 1978 e nel 1988), diffondono immagini di odio e di distruzione, che non solo non servono ad affrontare la malattia né praticamente né intellettualmente, ma propagandano pure una visione esiziale, imperialistica della realtà e dei rapporti.

Non si impara neanche da analoghi attuali come l’Hiv, che è diffuso nelle nostre società almeno dai primi anni Ottanta del secolo scorso: quasi quaranta milioni di persone ne sono infettate attualmente nel mondo, e quasi altrettante ne sono morte dall’inizio. Stranamente (e so bene, se guardiamo ai contesti socio-politici, che l’avverbio è tutt’altro che esatto) quest’altra pandemia, lontana dal concludersi, poiché dopo quasi quarant’anni dallo scoppio continua a mancare un vaccino, non sembra averci insegnato a parlare né dei virus né delle relazioni umane né degli equilibri che amministrano la sfera della vita né di quel fondamentale principio di mutuo rispetto che regola il rapporto tra identità e alterità in qualunque sistema, biologico o civile. In tanti mesi di discorsi sull’infezione, giornalistici e no, di rado si è sentito qualcuno chiamare in causa questo titanico gemello, il virus dell’Hiv.

Di fronte alla nuova infezione da coronavirus la gente sembra che sia caduta dalle nuvole e non abbia trovato di meglio da fare che bamboleggiarsi in una retorica vieta e cieca. Purtroppo va così. Dal momento in cui qualcosa smette di funzionare, si grida al dramma e basta, lo si assolutizza; quindi, ci si sofferma sui danni, finché fanno notizia; e le ragioni vere – scientifiche, culturali, spirituali, morali – le si dimentica il più in fretta possibile, anzi, non le si vuole vedere. E proprio come l’Hiv non ha preparato minimamente l’immaginazione e il linguaggio collettivi al Covid, così questo Covid passerà come un inutile flagello; o, nella migliore delle ipotesi, una questione politica ed economica, mal gestita e mal comunicata.

L’etimologia

A proposito di lingua, perché i virus si chiamano così? Riprenderne la vicenda lessicale forse non sarà solo un modo di rileggere qualche bel passo di letteratura, ma potrà aiutarci a tenere il discorso dentro un ambito più ampiamente culturale e, soprattutto, storico.

Se i virus sono una delle grandi scoperte della biologia moderna, il vocabolo esiste fin dall’antichità, e rappresenta senza dubbio uno dei casi più fortunati di sopravvivenza del latino di cui si abbia traccia nelle lingue volgari. Al liceo, quando cominciamo ad acquisire i rudimenti del latino, lo troviamo nella piccola lista dei neutri della seconda declinazione che non terminano in -um (solo tre). Si impara che significa “veleno”. Sarebbe, dunque, un sinonimo di “venenum” (questo, sì, un neutro regolare della seconda declinazione). In realtà, “virus” è portato a varie sfumature di significato, come testimoniano centinaia di passi della latinità classica. Se indica, certamente, una sostanza tossica, vegetale o animale, che ti porta alla morte, è anche miasma, putrescenza, cosa marcita, essudazione purulenta, sperma di bestia, alito fetente, acqua marina, tintura di stoffe. Può indicare una sorta di schiuma, come quella che sgocciola dalla luna per incantesimo stregonesco. O è l’umore delle cavalle che serve da filtro amoroso, il cosiddetto “ippomane” (ne parlano Virgilio, Ovidio e Plinio il Vecchio). O è il morbo dei cani rabbiosi (la rabbia, guarda la coincidenza, anche oggi è “virus”).

“Virus” designa una sostanza che sta tra il liquido e l’aeriforme, o è il risultato di decomposizione. È cosa trasmissibile e pervasiva. Per non parlare delle ricorrenti accezioni metaforiche: “virus” come corruzione morale, “virus” come maldicenza, “virus” come calunnia, e così via, che, se già compaiono nella letteratura pagana, trionfano nella pubblicistica cristiana.

Interessante è constatare, quando si fa lo spoglio delle occorrenze più significative, che questo vocabolo tende a specializzarsi secondo il contesto. Non ha, infatti, un significato definito di partenza. Il suo destino semantico è un po’ il destino del microorganismo patogeno che il vocabolo viene a indicare a partire dal 1893 (per iniziativa, pare, dell’olandese Martinus W. Beijerinck, il quale ricorre anche alla perifrasi latina “contagium vivum fluidum”, “contagio vivo fluido” – diversi anni dopo che il russo Dmitrij Ivanovskij ha scoperto che certe affezioni del tabacco della Crimea erano dovute a organismi assai più piccoli dei batteri): quello di adattarsi alle circostanze, prendendo consistenza da altro.

Columella, il bravo scrittore di argomenti agricoli, attivo nei primi decenni del I secolo d.C., chiama “virus” i depositi tossici del lino e del cece, o lo stato di decrepitezza di un terreno, o l’aria malata delle paludi. Nel poema di Lucano, la Farsaglia, “virus” è protagonista di alcuni eventi memorabili (se c’è un poeta virale, direi che quello è proprio Lucano, noto campione dell’horror e del macabro): la pestilenza che imperversa tra le truppe di Pompeo (“virus” è il contagio stesso) e l’azione dei serpenti del deserto, che riducono con il loro morso gli uomini a pozzangherine di materia guasta, “virus”, appunto (e “virus” è, naturalmente, anche il veleno dei micidiali rettili). Degli autori classici quello che più sembra prediligere il vocabolo è Plinio il Vecchio, il grande enciclopedista, morto nel 79 d.C. durante l’eruzione del Vesuvio. Nella sua Storia naturale il vocabolo ricorre diverse decine di volte, tendendo a significare “sostanza nociva” o “cattivo odore”.

Condividere il pianeta

Non siamo i padroni del pianeta in cui abitiamo. L’attuale pandemia questo dovrebbe avercelo ficcato in testa una volta per tutte. Qui, sulla terra, viviamo da condòmini, ovvero viviamo insieme ad altri viventi, anche invisibili, anche tremendamente microscopici, prossimi e remoti, e il condominio impone regole di buon vicinato. Ignorarlo porta ai disastri che abbiamo sotto gli occhi dall’inizio del 2020, e a tutti gli altri simili. No, l’attuale pandemia non è una guerra, come si continua a ripetere (scintillante eccezione, il presidente Draghi, che nel discorso di Bergamo del 18 marzo scorso ha lasciato da parte il parlar militare).

Le guerre, che non dovrebbero esistere, sono altra cosa, ed è un peccato che le si prenda, discorrendo a voce o per iscritto, a modello di altri dissidi e, in particolare, di questo stesso. Noi siamo semplicemente nel mezzo di una portentosa lite. Non abbiamo tenuto conto del regolamento condominiale e adesso stiamo cercando di proteggerci da un vicino molto irritato. Come? Anzitutto, standocene chiusi tra le mura domestiche. L’autoreclusione è senza dubbio una misura pratica. Ma rappresenta anche la mossa più emblematica che possiamo inventarci per dire: ecco, torniamocene al nostro posto. Con questo non intendo dire che chiudersi in casa debba essere la norma. “Stare al nostro posto” significa aver chiaro che, ovunque andiamo per il mondo, la nostra sfera personale deve tener conto della complessità circostante.

Ora siamo anche impegnati a mettere un altro muro di protezione intorno a noi, il vaccino. Appunto: vaccinarsi non è tirare col fucile o lanciare una granata; è dare una doppia mandata alla porta della nostra vera casa, il sistema immunitario, che si è costruito nel corso dei millenni per darci un domicilio sicuro: qui sto io; il resto rimanga fuori. La soggettività (l’individuo!) è anzitutto uno spazio biologico, che, proteggendosi dalle intrusioni, protegge pure ciascuno di noi da sé, cioè dalla sua irresponsabile voglia di travalicare. Noi, però, ci crediamo più forti del nostro sistema immunitario. E andiamo dove non dovremmo andare: deforestiamo, sfruttiamo suoli, distruggiamo habitat, e, così facendo, distruggiamo ordini e organizzazioni naturali, e i vicini sono costretti a venire in casa nostra.

Il panorama che la nostra pur rapida passeggiata etimologica ci ha messo davanti non è rallegrante. Il virus, tuttavia, come è giusto intenderlo oggi, non ci odia. Non vuole la nostra morte: vuole la propria vita. E anche se, divorando le nostre cellule, ci può portare alla morte, in via di principio cerca condizioni di serena e stabile coabitazione, perché la nostra fine diventa inevitabilmente la sua. Occorre, pertanto, che il condominio impari a rinegoziare gli spazi di pertinenza degli uni e degli altri, e a usare la lingua con più acuta coscienza di quello che, da lungo tempo, è in gioco per la felicità del pianeta.

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