Se il Mediterraneo viene definito un “mare chiuso”, l’Adriatico, lembo di Mediterraneo che si insinua tra le coste italiane e quelle della ex Jugoslavia lo è ancora di più. Facile quindi immaginare quale sia la situazione per quanto riguarda i rifiuti marini. Si tratta di uno dei mari più inquinati. Secondo uno studio dell’International Union for Conservation of Nature and Natural Resources (Iucn) nel Mediterraneo ci sarebbero un milione e 178mila tonnellate di plastica (la stima è stata fatta prima della pandemia e quindi non tiene conto della dispersione in mare di milioni di mascherine chirurgiche con i loro metalli pesanti).

Secondo il rapporto, i primi tre paesi che contribuiscono alla dispersione di plastica sono Egitto, Italia e Turchia. L’Adriatico riceverebbe ogni anno circa 4mila tonnellate di rifiuti. Tra i 62 fiumi che vi si immettono solo il Po, con i suoi affluenti (principalmente il Lambro e l’Olona, particolarmente inquinati), vi scarica 120 tonnellate tra macrorifiuti e micropastiche.

Le navi

Ma oltre allo scarico dei fiumi abbiamo porti commerciali in cui si muovono navi porta-container, navi cisterna, traghetti e navi da crociera. La contaminazione marina e atmosferica è estremamente elevata e il traffico, specialmente nel periodo turistico è più intenso di quello autostradale.

In aggiunta a tutto questo, i ministri Roberto Cingolani e Dario Franceschini – alla faccia della “transizione ecologica” – hanno firmato pochi mesi fa i decreti di Via (Valutazione di impatto ambientale) per progetti di estrazione: quattro al largo delle Marche e sei in Emilia Romagna. Il tutto senza contare l’impatto ambientale della raffineria Api di Falconara Marittima, in provincia di Ancona.

Monitoraggio continuo

Vista la grave situazione – e considerato anche che l’Adriatico è uno dei mari più sfruttati per la pesca – il monitoraggio di questo mare è costante. Al punto che, ormai da qualche anno, è diventato un vero laboratorio di ricerca per università, istituti, associazioni ambientali e privati. Tutti impegnati nella battaglia contro i rifiuti e, in particolare, la plastica.

Particolare interessante è che in questa battaglia sono stati coinvolti anche i pescatori. Dodici imbarcazioni di Chioggia (Ve) e Civitanova Marche (Mc) collaborano da tempo al progetto AdriCleanFish condotto dalle università di Siena e dell’università Ca’ Foscari di Venezia e finanziato dal ministero delle Politiche agricole.

Il progetto, come si legge sul sito, ha come obiettivo il «monitoraggio, raccolta e valutazione degli impatti dei rifiuti marini sulle specie ittiche per la conservazione delle risorse e una pesca sostenibile». I pescatori non vengono coinvolti solo per la parte “ittica” (secondo dati del 2018 la pesca italiana è concentrata prevalentemente nell’Adriatico con il 59 per cento delle catture) ma soprattutto perché, fino a qualche anno fa, ogni imbarcazione pescava quotidianamente dai tre ai cinque chili di rifiuti, soprattutto plastica. Un “bottino” che però, prima del decreto Salvamare approvato nell’ottobre del 2019, doveva essere ributtato in acqua. Si trattava infatti di rifiuti speciali che, se portati a terra, sarebbero costati una multa.

«I pescatori sono uno strumento fondamentale di questo progetto – dice la professoressa Cristina Fossi, docente dell’università di Siena ed esperta di problematiche marine a livello internazionale – Gli obiettivi erano formarli e coinvolgerli nella tutela dell’ambiente marino, sensibilizzandoli sulla problematica dei rifiuti e sul relativo impatto sulla biodiversità. Oltre, naturalmente, a capire quanto la plastica ritrovata nelle specie ittiche pescate, potesse trasferire componenti tossiche nell'uomo».

Cristina Panti, anche lei dell’università di Siena, spiega come si è svolto il progetto: i rifiuti sono stati raccolti e distribuiti in contenitori differenziati, quindi sono stati campionati in relazione alle zone di mare in cui sono stati rinvenuti e alla qualità del pescato. «I risultati del progetto – dice – mettono in evidenza che nell’80 per cento delle specie ittiche analizzate (in gran parte acciughe, naselli, sardine, sogliole, sugarelli e triglie) non è stata riscontrata la presenza di plastica, nel restante 20 per cento le miscroplatiche ingerite si localizzavano nell’apparato digerente e non rappresentavano un pericolo diretto per la salute dell’uomo, poiché i tratti gastrointestinali non vengono normalmente consumati».

Non va tutto bene

I pescatori coinvolti evidenziano come la pesca accidentale dei rifiuti abbia conseguenze sull’attrezzatura, che spesso viene danneggiata provocando perdita di pescato. Ma anche la gestione dello stoccaggio del materiale a bordo fino a qualche tempo fa era tutt’altro che semplice. La Salvamare ha risposto a gran parte di problemi prevedendo anche un meccanismo premiale – non più quindi una tassa sullo smaltimento – per il proprietario dell’imbarcazione che raccoglie e smaltisce.

E se i risultati del progetto AdriCleanFish tranquillizzano, in parte, sui danni alla nostra salute derivanti dalla presenza di plastica, altri inquinanti si trovano in abbondanza nelle acque dell’Adriatico: mercurio, piombo e cadmio. Diverse ricerche dell’università Federico II di Napoli e delle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente hanno certificato la presenza di queste sostanze, oltre i limiti massimi consentiti, in esemplari di pesce spada, tonno e mitili

Particolarmente attiva su questo fronte è l’università Politecnica delle Marche che recentemente, insieme all’ospedale Fatebenefratelli, ha condotto una ricerca che ha evidenziato la presenza di microplastiche e microparticelle pigmentate in campioni di placenta.

Attraverso il dipartimento di Scienze della vita e dell’ambiente (Disva), la Politecnica coordina un progetto che coinvolge 14 tra istituti europei e aziende private del settore tecnologico. «L’area marina del Conero – dice il professor Francesco Regoli, direttore del Dipartimento – rappresenta un ambiente unico per coniugare la salvaguardia ambientale con nuovi strumenti imprenditoriali, che poi possono essere diffusi a ad altre aree».

Nell’ambito del progetto è stato testato nel porto di Ancona, dopo le prove sperimentali presso il Centro nazionale delle ricerche di Genova, un dispositivo realizzato dall’Iris di Torino. Montato sia a bordo di un’imbarcazione dell’istituto sia di quelle della Garbage Group, azienda impegnata nella pulizia del Mediterraneo, ha ottenuto ottimi risultati. «L’apparecchiatura – dice Regoli – sottopone i rifiuti, organici e inorganici, a una trasformazione termochimica che non produce scorie, ceneri e gas tossici, ma energia che potrebbe essere recuperata in ambito portuale o per i motori dei pescherecci».

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