La transizione energetica è uno dei pilastri sui cui poggia il Piano nazionale di ripresa e resilienza: degli oltre 222 miliardi del Pnrr, una settantina saranno destinati infatti alla decarbonizzazione della nostra economia. 

E per abbattere le emissioni di anidride carbonica, dobbiamo produrre più elettricità da fonti rinnovabili, come l’eolico e il fotovoltaico. Questo significa, come ha dichiarato il 22 giugno il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, «installare nei prossimi nove anni una quantità di impianti eolici e fotovoltaici, corrispondente a circa 70 gigawatt», cioè circa 8 gigawatt all’anno.

Il problema è che oggi installiamo solo 0,8 di gigawatt verdi all’anno. Troppo pochi. E la situazione non sta migliorando: l’11 giugno il Gse (Gestore dei servizi energetici), la società pubblica che assegna gli incentivi alle rinnovabili, ha messo all’asta 1.582 megawatt di nuova capacità, ma ha ricevuto offerte dalle imprese energetiche per soli 98,9 megawatt e alla fine dell’asta è stato dato il via libera a progetti per appena 73,7 megawatt, meno del 5 per cento della disponibilità.

All’asta precedente, in maggio, era stata assegnato solo il 12 per cento della potenza disponibile. Un flop.

Perché si costruiscono così pochi impianti di energia rinnovabile in Italia? Mancano forse i fondi? No, il motivo principale è un cocktail di fattori in cui l’ingrediente più importante è l’iter autorizzativo a cui si aggiungono la resistenza delle popolazioni interessate (l’effetto Nimby, not in my backyard) e un pizzico di sciatteria delle società che installano pale eoliche e pannelli fotovoltaici.

Aumento della produzione

Ma facciamo un passo indietro e inquadriamo con un cinematografico campo lungo la situazione del paese, che negli ultimi anni ha visto triplicare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili: lo scorso anno l’85,5 per cento della domanda di elettricità in Italia è stata soddisfatta dalla produzione nazionale, il resto con energia comprata all’estero.

Fatta 100 la produzione interna, il 60 per cento arriva dalle centrali termoelettriche (gas e carbone) e il 40 per cento circa dalle fonti rinnovabili: idroelettrico con il 17 per cento, fotovoltaico con il 9 per cento, eolico con il 6, le bioenergie con il 6 e infine il geotermico con il 2 per cento.

Nei primi cinque mesi del 2021 la situazione non è cambiata molto con le rinnovabili che hanno coperto il 37,7 per cento della domanda di elettricità.

Attualmente in Italia abbiamo una capacità installata di produzione di elettricità pari a 116 gigawatt di cui 56 da impianti verdi. Un numero, quest’ultimo, che dovrebbe più che raddoppiare nel giro di 9 anni, come ricorda Cingolani. Ma se continuiamo a costruire centrali eoliche e fotovoltaiche al ritmo degli ultimi anni, ci metteremo 70 anni a centrare l’obiettivo.

Cinque anni di attesa

Non è che manchi l’interesse da parte delle società energetiche ad investire in Italia. A frenare l’entusiasmo è la lentezza del processo che, dalla presentazione del progetto fino alla gara del Gse, ci mette troppo tempo, circa cinque anni contro i sei mesi previsti dalla normativa europea.

Prendiamo il caso di un impianto di energia eolica: per avere il via libera deve essere esaminato da ben 38 enti diversi. «Già è un po’ singolare che un impianto di energia verde debba ottenere una serie di autorizzazioni alle quali non è soggetto chi costruisce una centrale a carbone, una cava o un grattacielo. Da un lato l’Europa ci chiede di produrre più energia verde e dall’altro l’Italia ha creato un sistema di norme che penalizza le rinnovabili rispetto ad altre attività economiche più inquinanti», commenta Simone Togni, presidente dell’Anev, l’associazione dell’energia del vento.

Per la verità un passo in avanti fu fatto nel 2003 con l’introduzione dell’autorizzazione unica. «Tecnicamente il passaggio che devono affrontare le società che vogliono installare o rinnovare un impianto di energie rinnovabili è uno solo», riconosce Togni. «Per gli impianti di oltre 30 megawatt l’autorizzazione unica raggruppa infatti i pareri di ben 38 enti diversi riuniti nella conferenza dei servizi a Roma, oltre al procedimento di Via (Valutazione di impatto ambientale) che viene fatto al ministero. Dopodiché il via libera passa alla regione che rilascia l’autorizzazione all’impresa. E poi occorre ottenere l’allacciamento alla rete di Terna. Infine si partecipa all’asta del Gse per stabilire il prezzo a cui vendere l’elettricità: la prossima, e al momento l’ultima, è a settembre».

Le soprintendenze

Ma più che una semplificazione è stata una razionalizzazione, dice Togni. E restano alcune criticità: in quelle conferenze di servizi il progetto di un nuovo impianto passa a maggioranza, però le soprintendenze di beni archeologici, artistici, paesaggistici hanno il diritto di veto e possono bloccare l’opera.

L’Anev sostiene che le soprintendenze godono di un’eccessiva discrezionalità e propone che motivino la loro opposizione suggerendo degli aggiustamenti e, laddove l’area non è tutelata, che il loro parere non sia vincolante. Come del resto prevede la normativa europea. Il risultato è che nel grande imbuto delle autorizzazioni sono fermi in questo momento circa 200 parchi eolici per un totale di 9 gigawatt.

Quando il progetto di un impianto eolico o fotovoltaico ottiene il via libera e l’allacciamento alla rete Terna, deve partecipare all’asta del Gse. In queste aste vengono assegnati gli incentivi alle fonti rinnovabili: poiché il prezzo all’ingrosso dell’energia elettrica è estremamente fluttuante e gli operatori di energia verde rischiano di non guadagnare se la quotazione va sotto certi livelli, attraverso il Gse si aggiudicano un prezzo stabile per i prossimi 20 anni e quest’operazione è finanziata dalle bollette dei cittadini.

Nel 2020 gli incentivi sono stati pari a 11,9 miliardi, di cui 9 per il fotovoltaico, ma le ultime aste sono state aggiudicate ad un valore equivalente al prezzo dell’energia quindi senza gravare più sulle bollette.

«Le aste in generale, da quando furono introdotte nel 2012 si sono dimostrate un meccanismo efficiente di allocazione degli incentivi», spiega il presidente del Gse Francesco Vetrò: «Difatti dal 2012 ad oggi le tariffe minime offerte sono scese dagli oltre 100 euro al megawattora del 2012-2013 fino ad arrivare in taluni casi sotto i 50 euro al megawattora. Il fatto che nell’ultima procedura le offerte ricevute siano state sensibilmente inferiori alla potenza disponibile non autorizza assolutamente un giudizio negativo sulle aste».

Secondo Vetrò il tema è quello della semplificazione e della pianificazione territoriale per individuare le aree idonee nel paese dove ospitare grandi impianti di energia rinnovabile.

Il Gse sta collaborando con il ministero della Transizione ecologica e «sta mettendo a punto una piattaforma di monitoraggio che includa la messa a disposizione di dati e mappe e faciliti il processo di pianificazione nonché la valutazione degli impatti economici, sociali, ambientali. E siamo pienamente disponibili, se utile, anche a fornire un contributo al processo di digitalizzazione dei percorsi autorizzativi».

Se la burocrazia e la resistenza delle soprintendenze sono i principali ostacoli allo sviluppo delle rinnovabili, anche le società proponenti avrebbero qualche responsabilità, secondo gli ambientalisti: documentazione inadeguata, tentativi di edulcorare l’impatto sul paesaggio, marchiani errori da copia-e-incolla.

Racconta Vitantonio Iacoviello, consigliere nazionale di Italia Nostra: «Io ho impiegato anni a farmi ascoltare e a far bocciare, dati di fatto alla mano, tre progetti e a farne dimezzare un altro. Per inciso, quest’ultimo ha descritto l’area alle pendici del monte Stagnone, che invece che in Basilicata si trova in Sardegna».

Ambientalisti divisi

Ormai le rinnovabili sono diventate terreno di scontro in campo ambientalista, con Legambiente schierata a favore per combattere il riscaldamento globale e Italia Nostra ostile per difendere il paesaggio. Paesaggio che, secondo Katiuscia Eroe di Legambiente, cambierà parecchio se il clima verrà stravolto: «Nessun impianto è perfetto, le rinnovabili sono l’unica soluzione possibile per salvare i ghiacciai o bloccare la desertificazione».

Così Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, rispondendo al Corriere della Sera sostiene che «il territorio italiano è sempre cambiato, fin da quando i romani costruivano i loro acquedotti o i geni del Rinascimento edificavano le loro magnifiche cattedrali. Le pale eoliche e le ferrovie ad alta velocità sono le nostre cattedrali…» 

«Come si possono paragonare le monumentali splendide cattedrali rinascimentali e i giganteschi acquedotti romani, giunti fino a noi dopo decine di secoli a testimonianza della grandezza dell’ingegno umano, con le migliaia di pale e gli sterminati campi fotovoltaici?», replica Iacoviello di Italia Nostra.

«Questi ultimi testimoniano solo l’insensibilità e l’ingordigia di pochi, a danno della collettività, della dignità delle persone, della perdita del prezioso bene paesaggio».

Intanto altri produttori di energie rinnovabili protestano. Non per le lungaggini burocratiche, ma perché vedranno svanire gli incentivi assegnati dal Gse. Come i produttori di energia da biomasse solide, che contribuiscono per circa il 5 per cento alla produzione nazionale di elettricità e che usano come carburante gli scarti dei boschi e delle attività agricole.

Senza questi incentivi, dicono all’Associazione Ebs (Energia da biomasse solide), gli impianti non stanno in piedi. E sarebbe un danno perché indirettamente si colpirebbe la cura dei boschi o si spingerebbero le aziende agricole a bruciare i materiali di scarto.

In attesa che la politica faccia la sua sintesi e individui la soluzione per raggiungere gli obiettivi di produzione elettrica verde, la situazione del sistema elettrico nazionale è sempre più fragile e «in assenza di import, risulta non adeguato» ha spiegato Terna in una recente audizione al Senato.

La ragione è semplice: dal 2013 abbiamo dismesso impianti termoelettrici per 14 gigawatt ed entro il 2025 dovremmo chiudere le centrali a carbone, eliminando altri 7,2 gigawatt di produzione. Senza nuovi impianti, rinnovabili o no, dipenderemo sempre di più dall’importazione di elettricità dall’estero. O saremo in balia dei blackout.

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