La Cop30 è la più simbolica di sempre. Ma le aspettative sono molto basse

Come un aereo che affronta una turbolenza con troppe spie di avaria accese, la diplomazia del clima inaugura giovedì 6 novembre, le settimane più importanti dell’anno. A Belém, in Brasile, parte il summit dei capi di stato e governo che apre Cop30, la conferenza Onu sui cambiamenti climatici. I primi due giorni saranno di dichiarazioni programmatiche, poi due giorni di pausa, poi due settimane di negoziato per indirizzare la transizione globale in un momento storico in cui il clima sembra scomparso dalle agende e difficile anche solo da menzionare. Strage prima di Cop30: gli effetti politici della sanguinosa retata antidroga a Rio Segnali di avaria I segnali di avaria di Cop30 sono diversi: lo spargimento di sangue di Rio contro i clan del narcotraffico, con operazioni simili attese o temute anche a Belém, la scarsa partecipazione di capi di stato e governo (meno di sessanta, un tracollo rispetto ai 150 di Dubai nel 2023), l’attacco deliberato degli Usa, la crisi di legittimità del multilateralismo, in particolare quello ambientale. Cop30 è quindi in una condizione non invidiabile: è la più simbolicamente carica (si celebrano i dieci anni dall’accordo di Parigi in una metropoli in Amazzonia) e quella con le aspettative più basse. Il negoziato vero parte il 10 novembre, è il trentesimo in questo format di conferenza delle parti gestita dall’Onu. Nel 1995, quando fu inaugurato, era uno degli strumenti più innovativi concepiti dal multilateralismo, ha ottenuto risultati che sono patrimonio comune dell’umanità, culminati con l'accordo di Parigi del 2015, ma oggi sembra un vecchio campione all’ultimo giro. L’uragano Melissa è il messaggio della crisi climatica al pianeta e alla Cop30 Segnali positivi Dei segnali positivi vanno registrati: nella Rio insanguinata dalla lotta contro le gang c’è stata la riunione dei sindaci della rete C40. Guidati dal londinese Sadiq Khan, i leader locali portano un messaggio chiaro a Belém: noi ci siamo. Cinquanta città hanno annunciato impegni più ambiziosi, il 75 per cento delle metropoli della rete ha già superato il picco di emissioni, negli Usa stanno fronteggiando il disimpegno trumpiano. A Belém ci saranno anche la società civile, le organizzazioni ambientaliste, gli attivisti, i cortei, le piazze, un controvertice. Si torna ad avere attività politica intorno alle Cop dopo tre anni di conferenze sul clima svolte in paesi dove si finisce in galera per un cartello, una frase o un post (Egitto, Emirati, Azerbaijan), e quindi dove l’unica attività ammessa era quella istituzionale con accredito Onu. Dal Consiglio europeo alla Cop30, l’Ue dice addio al sogno verde Il ruolo dell’Europa Prova a esserci anche l’Europa, che ha finalmente annunciato, proprio alla fine del tempo utile per evitare un disastro reputazionale, l’impegno di riduzione delle emissioni al 2040. Sarà il 90 per cento, come chiesto dalla Commissione, ma con troppe clausole a indebolirlo. Le più significative saranno la rivalutazione ogni due anni e una quota del 5 per cento di riduzione affidata ai crediti di carbonio (cioè comprare riduzione fatta da altri paesi come se l’avessimo fatta noi). L’Europa ha quindi potuto presentare l’Ndc al 2035, l’impegno formale previsto dall'accordo di Parigi. Il 4 novembre è stato pubblicato l’Emissions Gap Report dell’Onu. Esce ogni anno a inizio Cop. Come tanta ricerca aggregata sul clima, può essere letto come una condanna o un auspicio. I dati chiave: con le attuali policy energetiche il mondo va verso un riscaldamento di 2,8° a fine secolo (l’anno scorso era 3,1°), con gli attuali impegni formali saremmo tra 2,3-2,5° (l’anno scorso 2,6-2,8°). È certo che supereremo la soglia di un grado e mezzo di aumento di temperatura, ma con una riduzione di emissioni più veloce dell’attuale potremmo superarlo di solo 0,3°, e rientrare sotto soglia entro il 2100. Vuol dire un mondo difficile, poi difficilissimo, che poi torna a essere climaticamente sicuro tra tre generazioni. Non la situazione dei sogni, ma quando fu firmato l’accordo di Parigi, dieci Cop fa, stavamo messi peggio (verso +4°). Cop30, crisi degli alloggi a Belem. Così i diplomatici scelgono i sex motel Obiettivo minimo L’obiettivo minimo di Cop30 è preservare il fragile ma concreto progresso costruito in questo decennio, proteggendolo dal ritorno all’idrocarburo di Donald Trump, dalle guerre, dagli interessi delle aziende fossili, che si sono tolte i guanti negli ultimi due anni. Cop30 non ha un singolo compito macro, ma deve fare bene tante piccole cose, per portare il negoziato climatico in una nuova era, quella dell’implementazione e della verifica. Nella versione minimale di cosa sarebbe una Cop30 di successo, c’è un miglioramento dei flussi finanziari a favore dei paesi più poveri, passando dai 300 miliardi di dollari decisi a Cop29 a Baku a 1.300 miliardi (è la Baku to Belém roadmap, ne sentiremo parlare). Nella stessa versione minimale di una buona Cop, c’è un focus (scientifico, amministrativo, finanziario) sulla parte più negletta della lotta ai cambiamenti climatici, l’adattamento. Nella versione ambiziosa, la Cop30 porterebbe a qualcosa che la scienza chiede da anni: un percorso concreto di uscita dall'uso di combustibili fossili, con scadenze distribuite per tipologie di paesi. Con il mondo e il multilateralismo in queste condizioni, è difficile. Infine, le Cop da anni hanno il compito di ripensare il loro meccanismo di funzionamento: il metodo del consenso (di fatto l’unanimità tra paesi) le ha rese troppo vulnerabili agli agenti disturbatori, fossero i paesi Opec, i lobbisti dell’oil&gas occidentale, o Trump. Cop30, Trump non molla il petrolio: ma l’energia pulita è inevitabile