Con il Green Deal e il Next Generation Eu, l’Europa punta sull’ambiente come motore di sviluppo. Persa la leadership tecnologica, appannaggio di Stati Uniti e Cina, la decisione di raggiungerla nell’ambiente, concentrando le risorse su questo obiettivo, è intelligente e lungimirante. Il benessere che genera l’ambiente in cui viviamo e la sua dimensione sociale sono noti e generalmente condivisi.

Meno chiara la dimensione finanziaria. Il progetto di riconversione dell’economia europea richiede capitali ingenti: la Commissione stima in 260 miliardi l’anno gli investimenti necessari per raggiungere gli obiettivi di riduzione dei gas serra fissati per il 2030; e circa altri 200 l’anno per l’azzeramento delle emissioni nel 2050.

Uno studio della banca Ubs stima in 33 miliardi l’anno gli investimenti in energie rinnovabili necessari per rimpiazzare centrali inquinanti e soddisfare la futura crescita della domanda; e in 175 miliardi l’anno nelle infrastrutture che sarebbero richieste se si puntasse all’idrogeno. Sono solo simulazioni, ma danno l’idea delle cifre in gioco.

I capitali non sono il problema: la Commissione vuole dedicare all’ambiente circa il 30 per cento del bilancio europeo e del Next Generation EU, poco meno di 80 miliardi l’anno, più altri circa 25 di garanzie a prestiti della Banca Europea per gli Investimenti.

Una grossa fetta delle risorse necessarie dovrebbe venire dai privati tramite fondi infrastrutturali ed emissioni di green bond (80 miliardi già emessi nel 2020). È chiaro però che gli investimenti nell’ambiente dovranno essere redditizi affinché il debito che li finanzia, pubblico o privato, sia sostenibile.

Perché questo accada, è indispensabile che gli investimenti abbiano un effetto moltiplicativo elevato. Non ci si deve quindi limitare a contare i posti di lavoro creati da questi investimenti, ma bisogna valutare la loro capacità di generare nuove realtà imprenditoriali e di far crescere quelle esistenti, anche per capitalizzare le tante capacità e iniziative che, oggi disperse, non riescono a raggiungere una massa critica.

Per esempio, il beneficio degli investimenti nelle rinnovabili non dovrebbe limitarsi agli installatori di pannelli solari e ai progettisti, visto che i dieci maggiori produttori sono cinesi, coreani e americani.

Il nord Europa, che ha puntato sull’eolico, ha però creato aziende leader al mondo nella produzione di turbine (tedeschi e danesi hanno il 45 per cento del mercato). E quale è il moltiplicatore degli incentivi al trasporto elettrico se le tecnologie delle batterie, cioè il 50 per cento del valore di un’auto elettrica, sono cinesi, giapponesi o coreane, né si promuove in Italia alcuna iniziativa in questo segmento cruciale per l’auto, a differenza di altri paesi europei (per esempio, le iniziative della svedese Northvolt o dell’inglese Britishvolt per creare Gigafactory).

Per ora disponiamo solo indiscrezioni sulla lista dei progetti che l’Italia intende presentare per le risorse del New Generation EU (che continuiamo a chiamare Recovery Fund).

Le indiscrezioni non sono il piano del governo presenterà, ma gli elementi che emergono indicano la strada che si intende percorrere.  E sorge più di un dubbio sulla nostra capacità di promuovere la crescita con la green economy.

L’Italia non ci crede davvero

Sulla base delle riclassificazioni ufficiose dei vari progetti, in media le risorse per green economy, agricoltura ed economia circolare non eccedono i 60 miliardi sui 670 circa della lista (a meno di considerare green economy l’alta velocità al sud): meno del 10 per cento contro il 30 per cento annunciato dalla Francia e il 37 per cento della Spagna.

Grandezze sicuramente non confrontabili ma un’indicazione chiara che il Governo predilige il settore delle costruzioni (non certo il più verde) e il sostegno diretto, e indirettamente attraverso le imprese, all’occupazione: le voci infrastrutture, sostegno al lavoro, coesione sociale e incentivi alle imprese coprono infatti il 61 per cento della lista ufficiosa.

Le grandi opere e i sussidi mascherati all’occupazione hanno indubbiamente un grande ritorno politico; ma dubito che il moltiplicatore di questa spesa pubblica ecceda l’unità.

Un piano di investimenti pubblici così monumentale richiederebbe al vertice grandi capacità di indirizzo e chiarezza di obiettivi: per raggiungerli, infatti, è indispensabile concentrare gli investimenti e fare alcune scelte di fondo che spettano a un governo.  

Per esempio, visto le grandi economie di scala necessarie per rendere l’uso dell’idrogeno economicamente competitivo, se e come utilizzarlo richiederebbe un accordo quadro del nostro Paese con la UE per, ad esempio, aumentare drasticamente il costo delle emissioni di gas serra dell’industria inquinante (tramite il meccanismo delle Emission Cap and Allowances); imporre dazi sulle importazioni dai paesi extra Ue per prodotti come l’acciaio; trovare un accordo sulla tecnologia per produrre l’idrogeno (in proposito si veda l’articolo di Valeria Termini su Domani del 27 settembre), che inevitabilmente terrà conto degli interessi di Francia e Germania visto che hanno tre dei cinque maggiori produttori di idrogeno al mondo (mentre il nostro peso è risibile).

Invece, si è fatto l’opposto, partendo dal basso e chiedendo ai tutti i ministeri di presentare i propri progetti, col risultato di disperdere risorse al seguito dei tanti piccoli interessi di parte.

Ma il principale limite di questo programma di investimenti è che non si percepisce minimamente l’idea di usarli per creare nuove imprese private e per far crescere quelle esistenti alle dimensioni internazionali, creando per l’ambiente quello che è stato Silicon Valley per la tecnologia, dove il governo americano ha finanziato la ricerca, per utilizzi militari, ma ne ha lasciato al privato lo sfruttamento economico per creare grandi gruppi e sempre nuove iniziative (modello copiato dalla Cina).

Troppo piccoli per contare

Da noi pubblico e privato difendono il modello misto di piccole-medie imprese, consorzi e cooperative e poche grandi imprese a controllo pubblico. Ma le economie di scala sono essenziali anche nella green economy per sostenere gli enormi costi fissi degli investimenti necessari, per facilitare l’accesso al mercato dei capitali, per aumentare la capacità di spesa in ricerca e sviluppo e per competere con i giganti esteri.

Senza contare la necessità che le iniziative nella green economy riescano a riassorbire i tanti posti di lavoro che sussidiamo mantenendo in vita imprese in crisi, come l’Ilva o i tavoli di crisi del ministero dello Sviluppo. Per esempio, abbiamo eccellenze in agricoltura, energie rinnovabili ed economia circolare, ma anche un deficit di 14 miliardi nella bilancia commerciale del 2019 per queste voci.

Mentre in Francia, Veolia, gigante da 12 miliardi nelle acque e trattamento rifiuti, sta cercando di scalare la connazionale Suez. E come può la nostra industria inquinante, che conta per il 38 per cento delle nostre esportazioni, reggere i costi di una transizione green rimanendo così frammentata?

Dunque non è solo una questione di sostenibilita del debito. Rischiamo anche che il divario di crescita che si è creato con il resto d’Europa si allarghi ancor di più.

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