Ricordo di aver imparato che cos’è un algoritmo non in un corso di programmazione o di informatica, ma durante le ore di psicologia alle superiori. Un algoritmo, concetto oggi più conosciuto nel contesto di motori di ricerca e feed dei social media che nelle scienze sociali, è semplicemente una formula qualsiasi che passo dopo passo porta alla risoluzione di problemi. L’esempio classico è la divisione lunga: seguendo l’insieme standard delle regole posso calcolare il quoziente di due numeri reali qualsiasi.

Di recente, con questi ricordi delle lezioni di psicologia in mente, ho letto della funzione di Google Maps di prossima uscita che offrirà a chi è alla guida di scegliere tra i percorsi più “eco-friendly”, secondo algoritmi sviluppati con dati e analisi dal National Renewable Energy Laboratory, una sezione del dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti. Russell Dicker, direttore del prodotto a Google, ha affermato che «per circa la metà delle rotte, siamo in grado di trovare un’opzione più ecologica con un cambiamento in termini di tempo minimo o nullo».

Regole assolute

Quando ho letto questa cosa mi sono fermato. Non dubito che gli eco-percorsi di Google spesso producano cambiamenti minimi in termini di tempo. Ma questo solleva la domanda: che cosa dire degli altri effetti? I percorsi ecologici mi porteranno lungo strade cittadine più rumorose o con più rischi per i pedoni? L’affidamento di massa a queste nuove rotte creerà un inquinamento più localizzato lungo queste strade, mitigando un problema mentre ne aggrava un altro?

Non so come il nuovo algoritmo di Google affronterà questa complessità. Sospetto che non lo sappiano nemmeno gli ingegneri di Google. E temo che, come in altri àmbiti, stiamo spostando il nostro processo decisionale circa l’ecologia su algoritmi opachi basati su cloud che oscurano i compromessi insiti in tutte le nostre forme di consumo e comportamento.

Questo non è un fenomeno nuovo. Gli ammonimenti alle attività ecologicamente virtuose hanno generalmente ignorato, omesso o negato i compromessi. La maggior parte di questi ha assunto la forma dell’euristica – scorciatoie mentali progettate per accelerare e semplificare il processo decisionale – più che dell’algoritmo. Ma euristica e algoritmo sono simili in quanto oscurano i compromessi e semplificano la verità.

“Mangiare locale” è un’euristica che eleva gli impatti ambientali del trasporto del cibo rispetto a quelli della produzione, quando in realtà quest’ultima è molto più significativa.

L’eliminazione della plastica monouso è di gran moda di questi tempi, ma avvolgere alcuni prodotti nella plastica prolunga la durata di conservazione e riduce lo spreco di cibo.

Ridurre il consumo personale di acqua è importante, ma la quantità di acqua che finisce nei lavandini e nelle docce appare insignificante rispetto ai consumi industriali e agricoli.

Posso simpatizzare con alcune di queste campagne. È una regola generale abbastanza credibile, ad esempio, che mangiare meno carne fa bene al clima. Questi esempi però mettono in luce il modo in cui la nostra comprensione della sostenibilità ecologica si interrompe. Le regole per l’eco-consumo sono spesso poste come assolute quando, in realtà, la migliore scelta di comportamento o consumo deve bilanciare quella ambientale, economica, sociale e personale. Se sostituisco i miei hamburger con il panino con la cotoletta, ridurrò la mia immissione di carbonio a scapito di molte più vite animali perse, poiché una mucca macellata fornisce molti più pasti di un pollo. Compromessi!

Eco-algoritmi

Anche le azioni paternalistiche delle aziende, spesso basate su queste euristiche, possono avere conseguenze inaspettate. Epicurious, il sito web di cibo e cucina, recentemente ha deciso di interrompere la pubblicazione di nuove ricette a base di carne bovina per promuovere la sostenibilità. Ma azioni performative come questa possono effettivamente avere un effetto contrario che si ritorce contro la causa stessa che stanno promuovendo. La gente è infastidita perché si sente manipolata e per questo potrebbe allontanarsi dalle cause ambientali più in generale.

I nuovi eco-algoritmi nasconderanno i compromessi complessi e avranno effetti indesiderati.

Quando seguo il percorso ecologico su Google Maps, ridurrò effettivamente l’impatto complessivo del mio viaggio? Può darsi! Non ho motivo di dubitare dell’esperienza degli scienziati e dei programmatori di Google. Ma quali compromessi trascurerò delegando il mio processo decisionale a un algoritmo?

L’effetto collaterale

Ricerche recenti mostrano che il sistema utilizzato dalle compagnie aeree per calcolare le compensazioni di carbonio ha parecchi difetti. Quindi, quando pago un extra per compensare le emissioni di carbonio del mio volo Delta Airlines, cosa sto pagando veramente? Allo stesso modo, l’algoritmo Reconomy, che valuta la sostenibilità delle organizzazioni in base alla frequenza con cui nelle comunicazioni aziendali compaiono parole come “rinnovabili” ed “energia verde”, ci dice qualcosa di rilevante? Cosa succede quando le piccole imprese meno esposte al controllo pubblico, o palesi truffatori, implementano i propri eco-algoritmi?

Non voglio essere un luddista o un ipocrita. Uso volentieri Twitter e Amazon, per non parlare della logica algoritmica degli scaffali dei negozi di alimentari. Mi affido ad algoritmi non solo per influenzare le mie scelte ma spesso perché scelgano al posto mio.

Ma ho paura ad affidare la nostra già confusa comprensione dei problemi ecologici ad algoritmi impenetrabili. Le campagne ambientali hanno sofferto a lungo di una diffidenza del pubblico che sentiva di essere manipolato, svergognato o limitato. In un futuro di eco-algoritmi opachi, queste insidie rimarranno, danneggiando l’azione ambientale e il progresso contro il cambiamento climatico.

Questo articolo è stato pubblicato sulla testata online Persuasion

© Riproduzione riservata