Nelle ultime settimane è tornata in auge la narrazione del gas fossile come combustibile di transizione. Ne ha parlato con grande enfasi il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, evidenziando le difficoltà di un addio alle fossili che avrà bisogno di tempo e in cui gas fossile e idrogeno svolgeranno un ruolo centrale.

Le parole del ministro trovano conferma nelle migliaia di pagine del Piano nazionale di ripresa e resilienza, in cui non viene messo in dubbio il ruolo del gas fossile neanche per la produzione del famigerato idrogeno blu – o a basse emissioni – per cui si prevede un ruolo significativo fino al 2050, in attesa che l’idrogeno verde ne prenda il posto. Una narrazione questa che già da qualche anno occupa gli spazi istituzionali e le conferenze di settore, declinata da associazioni come Iogc, GasNaturally e Hydrogen Europe. Nonché dalla European Clean Hydrogen Alliance, la partnership pubblico-privata creata dalla Commissione europea in cui l’industria fossile la fa da padrone, promuovendo il ruolo del gas e dell’idrogeno sia nella transizione dal carbone – tema chiave soprattutto per le economie dell’Europa centrale e dell’Est Europa, ma anche per l’Italia – come anche nel raggiungimento dell’obiettivo “net zero” al 2050.

Introdurre il gas nella tassonomia della Commissione europea è la partita di quest’anno. La tassonomia è il dizionario di riferimento per la finanza sostenibile a livello globale, ben al di là del pacchetto di finanziamenti per il Green Deal europeo. Sul tavolo c’è la ridefinizione di cosa è considerato green e di cosa non lo è da tutta la finanza, sia pubblica che privata. Il regolamento sulla tassonomia europea sarà la bussola utilizzata da tutti affinché la catalogazione di una tecnologia come verde comporti facilitare in futuro le sue modalità di finanziamento.

La lettera inviata da alcuni dei membri del gruppo di esperti sulla tassonomia alla Commissione europea – che denuncia le pressioni dell’industria sulla politica – è stata un chiaro campanello d’allarme, a cui ha fatto seguito l’uscita dal gruppo di diverse organizzazioni della società civile, ma anche di altri esperti indipendenti. Il rischio reputazionale di essere associati con una tassonomia sempre più lontana da un vero green era per loro troppo alto.

Oramai si è raggiunto un accordo su quasi tutte le voci della tassonomia, ma sul gas e poco altro la decisione, originariamente di escluderlo, è stata rinviata a dopo l’estate. Così il gas potrebbe ancora rientrare tra gli investimenti con etichetta di sostenibilità, rischiando di svuotare di contenuto il Green Deal europeo e di dirottare miliardi in nuove infrastrutture e gasdotti, ma anche nell’adattamento di quelli esistenti per il trasporto dell’idrogeno, in nome di una presunta sostenibilità.

Il negoziato europeo

Le richieste dell’industria fossile sono penetrate anche nel dossier sulla revisione dei Progetti energetici di interesse comune, noto come Ten-E, nei palazzi della Commissione europea, che sta rivedendo i criteri di selezione dei progetti per i finanziamenti europei in un processo a porte chiuse dove però un posto per l’industria è garantito: il parterre lo ha creato la stessa Commissione, stabilendo che a proporre la lista siano i gruppi Entso-E, ovvero la rete europea dei gestori dei sistemi di trasmissione elettrica, e Entso-G, la rete europea degli operatori del trasporto del gas. Tra questi soggetti figurano sia corporation che puntano alla piena elettrificazione, con una propria agenda orientata al mercato e a dominarlo, sia altre che invece il gas non lo vogliono abbandonare. Come per esempio Enel, che fa parte di Entso-E e della Electrification Alliance assieme ai maggiori gruppi di pressione per lo sviluppo delle rinnovabili, ma in Italia si appresta a costruire nuove centrali a gas per un totale di sette gigawatt facendo man bassa dei benefici garantiti dal meccanismo del capacity payment. Enel ha infatti ricevuto 800 milioni dei 2,45 miliardi di euro di sussidi per centrali termoelettriche già elargiti dal governo italiano negli ultimi anni. O come Snam, che in Entso-G è tra le società più influenti e ha saputo utilizzare questo spazio per fare in modo che i criteri di selezione dei progetti Ten-E includano anche l’adattamento della rete dei gasdotti al trasporto di idrogeno mescolato al gas, il cosiddetto blending.

Ma non tutti gli stati membri hanno visto di buon occhio queste pressioni. Così undici governi, guidati dalla Danimarca, hanno risposto negli ultimi giorni con un documento ripreso da Reuters al dossier presentato dalla presidenza portoghese, che apre le porte al gas, dichiarando che non appoggeranno l’inclusione di nuovi gasdotti trans-frontalieri tra i Progetti di interesse comune dell’Ue. L’Italia, come prevedibile, non è tra i firmatari di questo sussulto di coscienza.

Tensione alta quindi per un negoziato su cui i ministri hanno trovato un pessimo accordo al Consiglio europeo sull’energia dell’11 giugno: nonostante i diversi voti contrari, è di fatto passata la proposta portoghese con un via libera al gas. Una decisione questa che va letta in un quadro più ampio di rilancio del gas fossile (decarbonizzato) a livello globale.

Allungare la vita alle fossili

In proposito, l’illusione che nuove tecnologie salvifiche possano ridurre le emissioni derivate dall’utilizzo delle fossili, come la fantomatica cattura, stoccaggio e utilizzazione del carbonio, sembra essere tra le più pericolose. La stessa Agenzia internazionale dell’energia nel suo ultimo rapporto ammette che qualora il Ccs/Ccsu – su cui la stessa agenzia fa enorme affidamento nei vari scenari di decarbonizzazione proposti – dovesse fallire, entro il 2050 serviranno 15 trilioni di dollari aggiuntivi in investimenti in solare, eolico ed elettrolizzatori per la produzione di idrogeno da rinnovabili al fine di raggiungere il fantomatico “net-zero”.

Una strada oltremodo impervia che la gran parte dei governi europei, in primis quello italiano, hanno deciso di continuare a battere pur di allungare la vita alle fossili e al sistema economico in esse radicato. Peraltro si sta parlando di tassonomia per la finanza verde anche nel processo del G20, quest’anno sotto la presidenza italiana. L’allargamento del dibattito a tutte le maggiori potenze mondiali rischia di annacquare ancora di più la posizione europea, già a rischio, per raggiungere così compromessi al ribasso.

Se così accadrà, meglio evitare di dare ancora una volta legittimità green a ciò che non lo è e concentrarsi, invece, sul definire cosa è finanza brown perché legata ai fossili e che andrebbe messa al bando una volta per tutte.

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