Conclusa la sfida elettorale, si discute di piani di investimento e di strategie industriali. I fondi europei ci costringono a uno sforzo di razionalizzazione di lungo periodo per far ripartire l’economia; richiedono finalmente una visione sistemica e un’idea per il futuro della società italiana. L’Europa mostra così una capacità di leadership, inattesa dai più. Offre al mondo un modello di crescita sostenibile, volta a superare l’alternativa tra crescita e clima e ad alleviare diseguaglianze sociali e ambientali non più tollerabili.

Al centro della svolta è la filiera dell’energia, cui si dedicano il 30 per cento dei fondi: la rivoluzione digitale sostiene l’uso delle fonti rinnovabili, accompagnata dalla ricerca industriale per produrre gas meno inquinanti (biogas, biometano, idrogeno verde). Ma una nuovsolo sa impostazione della Commissione, proposta nella Strategia europea sull’idrogeno (8 luglio 2020) e ribadita negli indirizzi recenti, attribuisce all’idrogeno un ruolo centrale. Il governo ha reagito con voci contrastanti: per alcuni è una soluzione, per esempio per l’Ilva, altri lo considerano una chimera.

Un nuovo miracolo?

Per l’Italia si leggono numeri da capogiro: uno studio recente presentato al Forum di Cernobbio rileva che «le attività della filiera dell’idrogeno potranno generare una produzione totale (diretta, indiretta e indotta) di 24 miliardi di euro nel 2030. Il valore cumulato nel periodo 2020-2050 raggiungerebbe 1.500 miliardi di euro in uno scenario di sviluppo accelerato (con un moltiplicatore che toccherebbe valori pari a 3,2, che diventano 3,7 introducendo la filiera dell’idrogeno in un modello di interdipendenze strutturali)».

Ne consegue l’impatto previsto sull’occupazione: «115.000 posti di lavoro al 2030 e 540.000 al 2050, equivalente al 13,6 per cento del totale dei lavoratori manifatturieri nazionali». Il Piano energia e clima (Pniec) presentato a Bruxelles, si dichiara, andrà rivisto per dedicare spazio adeguato all’idrogeno. Le previsioni recenti della Banca d’Italia ridimensionano questo ottimismo: il moltiplicatore degli investimenti pubblici, il più elevato, realisticamente non supera i due punti. L’idrogeno offrirà indubbi vantaggi nelle aree in cui l’elettrificazione alimentata da fonti rinnovabili con l’uso di batterie è più complessa: nell’industria pesante (acciaio, raffinerie e chimica) e nel trasporto di lungo corso su strada, ma soprattutto per l’aviazione e il trasporto navale.

Offre elevata densità energetica, la possibilità di accumulo di lunga durata dell’elettricità; ha diverse modalità di produzione, dallo steam methane reforming, (il trattamento termico del metano con vapore acqueo per ottenere idrogeno) alle soluzioni con gli elettrolizzatori.

Costruire la filiera

La capacità e la convenienza per l’Italia di costruire una filiera di cui non dispone la trama va valutata con un’attenzione di lungo periodo. L’intera via dell’idrogeno deve essere costruita: dalla produzione al trasporto, al consumo, in un processo che richiede sostegno per la produzione e aiuti per promuovere la domanda.

Ma il nostro mercato energetico si è sviluppato in un’altra direzione, nella quale l’Italia eccelle, diffondendo l’elettrificazione da fonti rinnovabili e predisponendo le infrastrutture necessarie per la distribuzione di energia generata da fonti rinnovabili locali. Siamo ben più avanzati nella frontiera del digitale applicato al settore energetico, come le smart grid (le “reti intelligenti” che consentono un controllo da remoto), i contatori intelligenti (per i quali l’Italia è sulla frontiera europea) che promettono uno sviluppo della domotica e il coinvolgimento della popolazione in città ecologiche, oggi già avviato a livello locale.

Le barriere dell’idrogeno invece sono alte: la prima è nella tecnologia non ancora matura; la seconda è nei costi; la terza infine è nelle infrastrutture. La sperimentazione di Snam in Campania, pure importante, di trasportare nei suoi tubi blended gas (gas misto a idrogeno) è davvero limitata, poiché l’idrogeno aggiunto è solo il 5 per cento e raggiungerà forse il 10 nei progetti futuri. Lo stesso vale per i primi tentativi, ben lontani dagli scenari europei, di convertire all’idrogeno gli impianti di Marghera e di Gela.

Simili barriere alla diffusione dell’idrogeno accomunano la maggior parte dei paesi europei. I costi richiedono sì un supporto finanziario pubblico significativo, ma soprattutto un prezzo del carbonio elevato, intorno agli 80 euro, nella forma di carbon tax o di certificati di emissioni negoziabili (Ets), la cui struttura andrebbe ancora riformata perché oggi sono quotati dal mercato intorno ai 20 euro. Dove nasce dunque la recente spinta propulsiva che ha fatto sposare all’Unione europea la nuova soluzione con enfasi strategica?

Il modello tedesco

Allargare lo sguardo al mercato europeo e globale è di aiuto. La concentrazione della produzione in Europa è assai elevata: tre grandi imprese tra le quali la tedesca Linde e la francese Air Liquide coprono circa l’85 per cento del mercato.

La Germania, con la Francia, è l’indubbio leader mondiale nella produzione di idrogeno. Ma su questo terreno, di recente, si è attivata l’Asia – dapprima il Giappone nel 2017 con un Piano strategico, la Corea del sud nel 2019, l’Australia e soprattutto la Cina nel 2018. È chiaro che la Germania non possa e non voglia perdere la propria posizione egemone nel settore.

Da qui gli studi e i tavoli interministeriali che hanno coinvolto il governo tedesco e la cancelliera in prima persona nel 2019, fino alla conclusione che privilegia per la transizione l’idrogeno blu, alimentato cioè da combustibili fossili, e accompagnato con un processo molto costoso di carbon capture and storage (CCS), ovvero di cattura e sequestro del carbonio (CO2).

Anche la Germania ha riconosciuto che è ancora lontano l’idrogeno verde alimentato da fonti rinnovabili. Improponibile è invece l’idrogeno nero, alimentato da combustibili fossili – carbone in particolare – perché troppo inquinante senza il sequestro del carbonio.

Non possiamo distrarci

Quale soluzione dunque per l’Italia? Ricerca e attenzione nei confronti dell’idrogeno sono un’opzione da seguire, ma le proiezioni economiche richiedono cautela e scelte strategiche realistiche per il lungo periodo. I fondi stanziati dall’Unione europea nel nuovo piano per la ricostruzione non possono essere trascurati, come pure le deroghe a regole stringenti sugli aiuti di stato, che oggi consentono interventi pubblici importanti nelle condizioni di crisi in cui verte l’industria italiana dell’acciaio: l’Ilva, in primo luogo, nel trasporto aereo Alitalia. Ma tra le iniziative di frontiera che sostengono il panorama

energetico nella transizione italiana sono altri i punti di forza che muovono il Paese verso una crescita sostenibile. Per l’Italia ci sono due lezioni dalla nuova attenzione dell’Ue verso la filiera dell’idrogeno.

La prima: una volta che l’Ue ha definito i propri indirizzi e stanziati i fondi connessi, governo e industria non possono esimersi dal partecipare al tavolo degli investimenti per utilizzare al meglio le possibilità che si offrono in questo ambito.

La seconda lezione è meno ovvia: l’Italia non può essere distratta al momento della costruzione delle strategie industriali europee, può seguire l’esempio vincente della Germania, che è riuscita a concentrare la strategia dell’Unione sull’asse dell’idrogeno nel quale quel paese eccelle.

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