Tra i lavori più celebri di Maria Thereza Alves (nata a San Paolo nel 1961 e oggi stabilitasi tra Napoli e Berlino) c’è Seeds of Change, un’opera che attraverso le piante racconta poeticamente la storia, spesso brutale, delle relazioni sociali e degli spostamenti umani nel mondo. Dal 1999 a oggi l’artista fa germogliare porzioni di terreno assopito ma custode di un sapere dimenticato. Nelle città portuali occidentali in cui è chiamata a realizzare le sue opere, infatti, Alves va alla ricerca delle antiche zavorre fatte di terra, sassi ecc. che venivano caricate sui velieri al momento della partenza e poi scaricati nei porti di destinazione. All’interno di queste ex zavorre sono tutt’oggi vivi i semi dormienti originari delle terre lontane da cui le navi partivano. Una volta ritrovate, attraverso la ricostruzione storica e lo studio cartografico, l’artista dissotterra e invasa queste testimonianze viventi, insediatesi clandestinamente nei paesi in cui si trovano.

Permettendo loro di germogliare, Maria Thereza Alves scrive letteralmente con le piante il racconto di una storia controversa legata alle rotte commerciali, al colonialismo e alla migrazione. Si creano così dei giardini, le cui specie vengono poi individuate con l’aiuto di esperti botanici, a volte galleggianti (come quello di Bristol) e altre posti all’interno degli spazi espositivi (come a New York). Camminare dentro uno di questi ecosistemi è un’esperienza paradossale nella quale convive una duplice sensazione: quella del piacere di trovarsi a contatto con una natura rigogliosa e l’idea che quella stessa natura sia fortemente antropizzata.

Quando non era di moda

Buona parte del lavoro dell’artista ruota infatti attorno al concetto d’indigeno e a ciò che riteniamo sia tale, dimostrando spesso che la maggior parte degli ambienti che ci circondano non hanno più molto di davvero naturale, al contrario derivano dalla presenza umana. Attraverso le trasformazioni postcoloniali, ecologiche e sociali infatti l’essere umano ha prodotto degli effetti sull’ambiente che le opere di Maria Thereza Alves mettono in luce. Phantom Pain per esempio, è un lavoro realizzato a Toronto nel 2019 che invita a riflettere sul fatto che spesso l’essere umano ha disseccato o interrato i fiumi per farsi spazio. Con quest’opera l’artista evoca lo spettro di un corso d’acqua attraverso una sinuosa sagoma in metallo riflettente posta in mezzo all’erba.

L’impegno nei confronti dell’ambiente di questa artista arriva da lontano, sin dai tempi in cui questi temi non erano in voga quanto oggi. Mi racconta: «Ho iniziato a lavorare sui temi legati all’ambiente in Brasile all’inizio degli anni Ottanta e poi nel 1987 insieme a due amici decisi di fondare il Partito Verde nello stato di San Paolo. Al nostro primo incontro parteciparono una dozzina di persone. In quel periodo c’era davvero poca attenzione per i temi dell’ecologia».

Ciononostante all’attivismo ha da subito prediletto il fare artistico, poiché sostiene: «Per quanto mi riguarda, penso che attraverso la pratica artistica io possa impegnarmi socialmente con modalità che invece sarebbe difficile adottare come politica o in altri ambiti sociali. Questo perché l’arte oggi non ha limiti o confini».

Con le comunità

Una mancanza di limiti che ha portato negli ultimi decenni gli artisti a relazionarsi con le comunità, modalità operativa attraverso cui la stessa Alves ha realizzato diverse opere, tra cui The Return of a Lake. Si tratta di un lavoro complesso del 2012 (presentato alla tredicesima Documenta di Kassel) attraverso cui l’artista racconta, con fotografie, plastici fatti a mano e un libro, la travagliata vicenda dello sfruttamento di un lago della Valle de Xico in Messico. Il lavoro nasce dal confronto e dal dialogo con la popolazione locale, che le chiese esplicitamente di dare voce a questa storia. È ancora lavorando attraverso la pratica partecipativa del workshop con alcuni studenti indigeni che, nel 2018, è nato Decolonizing Brasil. Questo progetto consiste in una serie di azioni, appartenenti a diversi ambiti disciplinari come arte, linguistica, teatro ecc., volte a riflettere sulla mancanza di spazio del pensiero indigeno nella cultura contemporanea. Da questo dialogo ha preso vita anche la videoinstallazione To See The Forest Standing del 2017 (nella foto).

L’opera è composta dalle interviste a 34 indigeni della foresta amazzonica, appartenenti a popolazioni sopravvissute alle campagne di genocidio portoghesi prima e brasiliane poi. Queste persone, depositarie di un ormai dimenticato rispetto verso la natura, sono quotidianamente impegnate nell’utilizzo di tecniche agroforestali sostenibili soprattutto all’interno di aree oggetto di pesanti interventi di deforestazione. Racconta Alves a proposito di questi cosiddetti agenti agroforestali: «Sono rimasta impressionata dal lavoro di cui sono responsabili e che portano avanti senza alcun riconoscimento o supporto del governo brasiliano. Loro sono in prima linea per la difesa delle foreste, in modo che il mondo abbia aria da respirare». Viene da dire che là dove mancano la politica e probabilmente anche la società, è arrivata l’arte.

© Riproduzione riservata