“Emergenza smog”, “blocco del traffico”, “interventi strutturali”. I titoli che apparivano sui quotidiani italiani  quando era da poco crollato il muro di Berlino, trent’anni fa, sono pressoché indistinguibili da quelli odierni.

Eppure, anche solo scorrendo uno dei Rapporti sulla qualità dell’aria che ogni anno vengono redatti a cura delle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente, emerge in tutta evidenza come la situazione odierna non sia neppure paragonabile a quella del passato.

Per tutti gli inquinanti (tranne l’ozono che fa storia a sé e che ha un comportamento che potremmo definire “dispettoso”)  i grafici che descrivono l’evoluzione della qualità dell’aria hanno tutti un elemento in comune: puntano verso il basso, alcuni rapidamente altri meno.

Prendiamo le polveri sottili, la tipologia di inquinante alla quale vengono attribuiti oltre l’80 per cento degli impatti negativi sulla salute. A Milano, nei primi anni Settanta dello scorso secolo, la concentrazione media annua era intorno a 160 microgrammi/m3, all’inizio degli anni Novanta era scesa a 80 e da allora si  è ulteriormente dimezzata; il contributo delle auto è inferiore ai 5 microgrammi.

Ma non si continua nonostante tutto a morire di smog? Nessuno, oggi, neppure nelle giornate invernali esce di casa in buone condizioni di salute e non vi fa ritorno alla sera perché ucciso dallo smog (come invece accadeva a Londra settanta anni fa). Al riguardo, può essere interessante confrontare i dati relativi agli eccessi di mortalità rispetto alla media dei precedenti cinque anni nel mese di gennaio e in quelli successivi durante la prima ondata del Covid-19.

A gennaio, mese che ha fatto registrare concentrazioni di polveri superiori a quelle del lustro precedente, nelle città del nord la mortalità è risultata inferiore alla media mentre, come risaputo, vi è stato un forte scostamento in aumento nel mese di marzo e in quelli successivi.

Ed è un dato di fatto che nella relativamente più inquinata Lombardia si vive più a lungo che nel resto dell’Europa e dell’Italia: 84 anni, tre in più della media europea e otto di più rispetto al 1990.

In Italia, dove quasi il 100 per cento della popolazione vive in aree con concentrazione media annua di PM2.5 superiore ai 10 microgrammi/metrocubo (il valore superato il quale secondo l’Oms si registrano effetti negativi sulla salute), la speranza di vita è maggiore di quella di Svezia e Nuova Zelanda dove nessun residente  è esposto a un livello di polveri fini che supera questa soglia.

Questi dati non implicano evidentemente che lo smog non abbia alcun impatto sulla salute ma suggeriscono che esso influisce in misura limitata e decrescente nel tempo sull’aspettativa di vita.

Assodato che la condizione odierna è molto migliore di quella del passato, cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi anni? E come possono contribuire gli interventi che vengono abitualmente descritti come risolutivi, in particolare la riduzione del traffico privato?

La risposta al primo interrogativo la possiamo trovare ancora nei documenti delle Agenzie per la qualità dell’aria, ad esempio il Piano per la qualità dell’aria della Regione Piemonte nel quale si può leggere che, in assenza di qualsiasi ulteriore intervento, la concentrazione delle polveri e del biossido di azoto, è destinata a calare ulteriormente portando così quasi tutto il territorio a rispettare i limiti previsti dalla normativa vigente.

Questo ulteriore miglioramento avverrà, come quello alle nostre spalle, quasi esclusivamente grazie ai progressi ottenuti dall’industria automobilistica. Un’auto Euro 0 diesel emetteva più di quattro grammi di ossidi di azoto per chilometro percorso, una Euro 6 ne produce meno di 0,03 ossia il 99,3 per cento in meno.

Una sola auto commercializzata negli anni ’Ottanta immetteva in atmosfera la stessa quantità di questa tipologia di inquinante prodotta da più di cento vetture odierne.

I dati sopra riportati ci fanno capire il perché i blocchi del traffico non hanno quasi effetto sulla qualità dell’aria e perché non abbiano possibilità di avere alcuna ricaduta rilevante i cosiddetti interventi “strutturali” nel settore dei trasporti. Gli effetti di una o due linee di metropolitana in più o di qualche decina di chilometri di ciclabili sono quasi trascurabili.

Cosa fa la differenza

Tre sono i settori su cui occorre puntare: il rinnovo dei mezzi commerciali e pesanti, il riscaldamento degli edifici e il settore agricolo per il quale non esistono soluzioni radicali a portata di mano.

La politica ha però almeno una leva in mano che potrebbe essere azionata nell’interesse collettivo ossia la riduzione dei genorosi sussidi di cui gode il settore “verde” sulla carta ma non nella realtà.

Si può fare del bene all’ambiente e, al contempo, al bilancio dello Stato. Bilancio che invece viene danneggiato ogni qualvolta si riduce il trasporto su strada sul quale grava un prelievo fiscale elevato e, nella maggior parte dei casi, superiore al danno arrecato alla collettività.

Per ogni diecimila chilometri percorsi, un’auto a benzina euro 6 genera un danno correlato all’inquinamento atmosferico stimato dalla Commissione Europea pari a 15 € e un introito per lo stato superiore ai 500 euro.

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