Poche settimane fa una ricerca su Science ci diceva che negli ultimi dodici anni la quantità di luce artificiale nei cieli è aumentata del 10 per cento. Un bambino nato sotto una porzione di cielo nella quale, in una notte senza nuvole e luna, si vedevano 250 stelle, oggi ne vedrebbe solo 100. L’isola di Bardsey (Ynys Enlli in gaelico) si trova al largo del Galles settentrionale, la chiamano anche «isola dei 20mila santi» (lunga storia), è famosa per le mele, il faro e l’avifauna. Ora è il primo posto in Europa ad aver conquistato il certificato di cielo notturno perfetto, buio e pieno di stelle.

Ynys Enlli è l’ultima arrivata dei diciassette Dark Sky Sanctuary, i santuari della notte buia, dove il buio è promessa e non minaccia, luoghi remoti e pieni di stelle. Per diventare santuari delle stelle questi posti devono attraversare un processo di selezione lungo quattro anni da parte della International Dark Sky Association e dimostrare di avere un buio perfetto, quasi primordiale.

Ynys Enlli è aperta al turismo da marzo a ottobre, ha dieci cottage che si affittano ai visitatori. Così, nel caso cercassi un cielo, un posto e un destino a breve termine. Cominciamo, questo è l’episodio palindromo numero 111 di Areale.

Le implicazioni climatiche della settimana corta

La settimana scorsa abbiamo parlato di stanchezza, oggi parliamo di lavoro. Come avrai visto, sono usciti i risultati del più ampio esperimento mai realizzato sulla settimana lavorativa di quattro giorni (senza riduzione di stipendio). Risultati prevedibili e allo stesso tempo spettacolari, c’è un potenziale slittamento culturale lì dentro: a lavorare un po’ meno si vive meglio senza produrre meno, anzi, in alcuni casi producendo di più. Battaglie retrò che tornano attuali, con l’evidenza dei numeri e alleanze inedite: la maggior parte delle aziende coinvolte ha deciso di rendere la sperimentazione strutturale. C’entra anche il clima.

Secondo l’economista e sociologa Juliet Schor, una delle guide di questo progetto di ricerca, accorciare la settimana lavorativa è (anche) una buona chiave d’accesso al dilemma della decarbonizzazione, ridurre le emissioni senza smantellare la società, anzi: ridurre le emissioni e rendere a vita umana più felice. La settimana corta è una delle classiche misure climatiche che non sembrano climatiche, perché tutto è clima, anche quello che non sembra clima.

Ridurre le ore lavorative del 10 per cento porta un calo dell’8,6 per cento delle emissioni di gas serra, diceva già uno studio del 2012 sempre co-firmato da Schor. L’effetto è quasi lineare da leggere: l’impatto cala perché si riducono i consumi degli edifici, dei data center e la pressione sui trasporti. Secondo la sperimentazione della 4 days week fatta su 61 aziende con una settimana di quattro giorni il tempo di vita trascorso a viaggiare verso il lavoro si riduce in media di 3,5 ore, cioè del 10 per cento, ma il risparmio può arrivare fino al 20 per cento a seconda dei contesti geografici, negli Stati Uniti è arrivato addirittura al 27 per cento. Vivere meglio, sprecare meno tempo nel pendolarismo, emettere di meno. Win win.

Questi numeri dimostrano un concetto chiave, che felicità ed ecologia possono essere collegate, che una riduzione dell’impatto carbonico può essere collegata a un aumento della qualità della vita. Cosa serve? Immaginazione, innanzitutto: il modo in cui abbiamo sempre fatto le cose non è come siamo condannati a farle per sempre. La settimana corta ha il potenziale per diventare una delle grandi battaglie ecologiste dei prossimi anni.

C’è un altro aspetto importante: cosa facciamo, cosa faremmo, cosa faresti tu con un giorno libero in più ogni settimana, come sarebbero distribuite le tue energie e attività in una vita dove il weekend comincia il giovedì sera? Ci sono punti di vista contrastanti: c’è chi dice che un weekend lungo permanente possa aumentare le attività inquinanti e carbon intensive, come le gite nelle capitali europee a mezzo aeroplano. Possibile, però i dati dimostrano che il sabato e la domenica sono già giorni con emissioni più basse di quelli dal lunedì al venerdì, almeno in Europa e Nord America: la domenica addirittura più basse del 40 per cento (giorno del Signore, si vede).

Secondo i dati dell’US Energy Information Administration gli statunitensi bruciano il 10 per cento dei combustibili fossili in meno nel weekend. E in più: i dati dello studio sulla settimana corta mostrano anche come le persone con un giorno libero in più riescano a partecipare di più alla vita pubblica e civica, a fare più volontariato e più attivismo. E qui si chiude il cerchio con la stanchezza. Lo status quo rimane tale anche perché è ingegnerizzato per non lasciare energie mentali e fisica per costruire o anche solo concepire delle alternative. Una settimana corta potrebbe cambiare tutto questo? Forse. Parliamone.

Il flaring come metafora del presente

Il Global Methane Tracker dell’Agenzia internazionale dell’energia è uno dei rapporti più attesi dell’anno per tre motivi. Primo: il metano è il gas serra più climalterante e pericoloso, molto più della CO2. Secondo: il metano dura meno della CO2 in atmosfera (decenni contro secoli), quindi permette di avere effetti di riduzione più veloci e misurabili, è il cosiddetto «low hanging fruit» del clima, il frutto che si può afferrare prima perché si trova più in basso. Terzo: da due anni la comunità globale dei paesi ha preso un impegno a breve termine di ridurre le emissioni del 30 per cento entro il 2030, quindi la curva del metano è un buon modo per confrontare l’attrito tra realtà immaginaria dei pledge – le cose che promettiamo di fare – con quella tangibile delle policy – le cose che concretamente facciamo. Bonus: la riduzione di metano è anche il principale fronte di collaborazione aperto tra Stati Uniti e Cina, uno dei pochi canali di dialogo in corso. Il Global Methane Tracker 2023 è uscito e le notizie non sono buone: i livelli di emissioni di questo gas non solo non sono nemmeno lontanamente vicini agli obiettivi che abbiamo da qui a sette anni, ma continuano a crescere, hanno superato i livelli del 2020 e del 2021 e hanno sfiorato quelli del 2019 (anno record di sempre).

Il settore energetico è responsabile del 40 per cento del metano in atmosfera (il resto deriva da rifiuti, agricoltura e allevamenti). Nel 2022 le estrazioni di carbone, gas e petrolio hanno rilasciato 135 milioni di tonnellate di metano in atmosfera. Il grande paradosso è che si potrebbero tagliare queste emissioni del 75 per cento applicando al contenimento del danno tecnologie esistenti. Non servirebbero nemmeno rivoluzioni, solo manutenzione e responsabilità, estrarre meglio, in modo più razionale.

Il metano finisce in atmosfera a causa di perdite nell’infrastruttura o flaring, la pratica di bruciare il gas in eccesso estratto dai pozzi perché non ci sono abbastanza tubi per trasportarlo (perfetta metafora del presente). Questo spreco è anche utile a misurare quanto sia disfunzionale questa industria, che brucia ogni anno in atmosfera - per falle tecnologiche, infrastrutturali o di policy - l’equivalente del gas che ogni anno l’Unione Europea importava dalla Russia prima dello scoppio della guerra.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia basterebbero 100 miliardi di dollari di investimento, il 3 per cento dei ricavi oil&gas del 2022, per ottenere una riduzione di due terzi del flusso di metano dai pozzi all’atmosfera. «Tagliare le emissioni di metano è la soluzione più veloce ed economica per ridurre il riscaldamento globale a breve termine», ha spiegato Fatih Birol, direttore della IEA.

Dal momento che la CO2 resta secoli in atmosfera, ci vuole molto tempo per iniziare a osservare gli effetti della riduzione delle emissioni. Il metano dura meno, gli effetti sono visibili in poco tempo. Una verità scientifica lineare, che non è ancora entrata nei processi decisionali dell’industria oil&gas.

La CO2 emessa in atmosfera è costante, il metano al contrario deriva da singoli episodi, da picchi, da incidenti. Il più famoso del 2022 è stato il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, un episodio vistoso, drammatico e ancora oggi senza responsabilità chiare. Sembrava una catastrofe ecologica su vasta scala ma in realtà, come ha spiegato Birol, è solo una normale giornata dell’industria del gas, «che rilascia in atmosfera l’equivalente del disastro Nord Stream praticamente ogni singolo giorno di operatività».

Secondo il Global Methane Tracker nel corso del 2022 ci sono stati 500 «super-emitting events», episodi ad altissimo tasso di perdite di metano, tutti paragonabili al disastro del Nord Stream. Di quella storia siamo venuti a conoscenza per il suo valore geopolitico nell’attrito tra Russia, Unione Europea e NATO, ma dal punto di vista ecologico e climatico è una cosa che accade più di una volta al giorno, ogni giorno dell’anno.

A questi disastri nell’estrazione di petrolio di gas e petrolio vanno aggiunto i 100 super emitting event nelle estrazioni di carbone. È come se ogni giorno della settimane scoppiassero due bombe di metano delle dimensioni del Nord Stream, semplicemente perché l’industria non è in grado di spendere il 3 per cento dei suoi ricavi nel mettere in sicurezza la sua stessa rete.

Il cammino dello sport verso il futuro

«Noi lo vediamo che il mondo sta cambiando. Vediamo l’impatto che questo cambiamento ha sul nostro sport. Io voglio che le generazioni future possano sperimentare l’inverno e fare quello che posso fare io», ha detto alla Associated Press lo sciatore norvegese Aleksander Aamodt Kilde. Parlava a nome di oltre 200 atlete e atleti che hanno scritto alla International Ski and Snowboard Federation (FIS) per chiedere di prendere atto che le stagioni sono cambiate, che bisogna adattarsi alle circostanze e contribuire alla lotta contro la crisi climatica. (Ho intercettato questa notizia grazie alla preziosa pagina Instagram Occhio del Gigiat, che ti consiglio di seguire. Anzi, vai, ora, segui, poi torna a leggere).

I firmatari hanno chiesto un calendario di gare più «geograficamente ragionevole» (che bella espressione) per ridurre voli ed emissioni, evitando - come successo al circuito maschile quest’anno - di volare per due volte avanti e indietro tra Europa e Nord America per gareggiare. La lettera è stata scritta dall’austriaco Julian Schütter, ambasciatore di Protect Our Winters.

Le richieste sono precise e chiare: la FIS deve impegnarsi a raggiungere lo zero netto di emissioni entro il 2035, deve raggiungere il dimezzamento delle emissioni entro il 2030, deve istituire un dipartimento di sostenibilità per farne un aspetto chiave di tutti i processi di governance e delle operazioni. Ma è il tono a essere ancora più importante delle richieste. È una lettera preziosa perché è netta, e posizioni così nette sul clima prese nel mondo dello sport sono una rarità, e non è un caso che queta chiarezza venga dalle discipline più direttamente minacciate dalla crisi climatica. È un messaggio che non teme di essere politico, e di questo abbiamo bisogno: che gli sportivi non abbiano paura di suonare estremamente politici.

«Come comunità degli sport invernali, dobbiamo prendere l’iniziativa nella lotta contro il cambiamento climatico e rendere il nostro sport neutrale dal punto di vista climatico il prima possibile. Per farlo abbiamo bisogno di un’azione organizzativa progressiva. Siamo consapevoli degli attuali sforzi di sostenibilità della FIS e li giudichiamo insufficienti».

C’è una sproporzione tra il potere simbolico e comunicativo di cui gode lo sport e la sua quasi totale assenza nel discorso sulla crisi climatica. Forse non c’è un ambito della società in cui il business as usual sia più solido e coltivato come nello sport professionistico, soprattutto al livello di chi quegli sport il pratica.

Ci ricordiamo tutti i casi in cui succede il contrario perché sono, appunto, eccezioni: l’attivismo del norvegese Morten Thorsby, la maglia con le climate stripe del Reading FC nella Championship inglese, i messaggi politici di Sebastian Vettel in Formula 1. Ti viene in mente altro? Io non ricordo una presa di posizione grande e compatta come quella di sciatori e sciatrici e quindi la accolgo come una grande notizia.

Mobilità sostenibili: cinque pezzi facili

Veloci e giuste, (relativamente) facili da applicare da subito e orientate alla giustizia sociale. Sono le cinque proposte del rapporto Win-Win: 5 fast and fair solutions for cleaning up urban transport lanciato questa settimana da Clean Cities per decarbonizzare la mobilità urbana in Europa e ridurre l’inquinamento dell’aria. Come dice Claudio Magliulo, capo della campagna per l’Italia, la mobilità urbana come la concepiamo oggi è basta su due grandi ingiustizie. La prima è che i livelli di inquinamento hanno un impatto sproporzionato sulla salute fisica e mentale dei più vulnerabili (bambini, anziani, diversamente abili) e dei più poveri. La seconda è quante persone oggi non possono fare a meno dell’automobile, proprio perché le città e i contesti circostanti non offrono alternative. E quindi il sistema attuale costringe le persone a diventare carnefici di se stesse.

Scorriamole velocemente, queste idee. La prima proposta sono crediti alla mobilità sostenibile, anche in forma di schemi di rottamazione, costruiti in base a principi di progressività, per incentivare le persone a dare via veicoli inquinanti e adottare nuove forme di trasporto più sostenibili. La seconda, semplice semplice: ridurre in qualsiasi modo il costo per l’acquisto di biciclette, una buona pratica sperimentata da già 300 schemi di sussidio in tutta Europa. (Ricordi il bonus bici? Quello, ma fatto meglio). La terza: tariffe mirate, ridotte o azzerate, per i trasporti pubblici, organizzate per gruppi di priorità. Come il climate ticket austriaco o i trasporti pubblici gratuiti per bambini, studenti, anziani, sperimentati da Lisbona a Varsavia. La quarta: creare hub di mobilità sostenibile nelle periferie. La quinta: piani di noleggio sociale per le auto elettriche. Si può fare: non è un problema di risorse, è un problema di priorità.

Prima di salutarci

Due letture che mi sono piaciute questa settimana:

- Sul New Yorker c’è un lungo approfondimento su come sono state costruite le identità dei popoli indigeni, su quanto siano allo stesso tempo problematiche e politicamente fertili.

- Su Aeon c’è una riflessione sull’intelligenza artificiale e sulle domande - inevitabili - che ci facciamo sulla prospettiva di una AI senziente. Giusto. Interessante. Ma a questo punto, scrive Aeon, dobbiamo tornare a una priorità: e gli animali? Forse la più grande questione etica della contemporaneità. Altro che ChatGPT.

Il 3 marzo c’è lo sciopero del clima. Lo sciopero del clima è di tutte e tutti, non solo degli attivisti, non solo dei giovani. Se ci vanno solo loro, non serve a niente, tifare dalla finestra non è utile. A Milano la sera c’è il consueto incontro di https://unbelclima.it/Ci sarà un bel clima, insieme a Diciassette, Fridays For Future Milano e Sai che puoi?. Appuntamento alle 18 in Piazza Cadorna, pedalata, aperitivo in Darsena alle 19.30. A Brescia c’è una For Future Fest il 4 marzo, un tentativo di innovare e allargare la pratica dello sciopero climatico.

Areale sta per compiere due anni. (Il tempo vola, eccetera).
Come sta andando?
C’è qualcosa che miglioreresti? Qualcosa che vorresti trovare? Ti angoscia? Ti diverte? Vorresti lanciarle della zuppa addosso? La vuoi più breve? Più lunga? Insomma, momento assemblea e customer care, questa newsletter è una cosa che si fa insieme, quindi miglioriamola insieme. 

Siamo alla fine, buon sabato, se hai voglia di scrivermi, l’indirizzo lo sai: ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, lettori@editorialedomani.it. A sabato prossimo!

Ferdinando Cotugno

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