Il crollo in mare del cimitero di Camogli, in Liguria, è un monito su quello che deve significare transizione ecologica per uno dei paesi più franosi d’Europa. Nelle ultime settimane si è giustamente molto discusso di riduzione delle emissioni, decarbonizzazione e riconversione industriale ma ancora poco di adattamento climatico e mitigazione del rischio idrogeologico. Il lavoro da fare sugli effetti già in atto del cambiamento climatico sul nostro territorio è urgente quanto quello sulle cause per mitigare quelli futuri. Secondo i dati Ispra, il 91,1 per cento dei comuni contiene aree ad alto rischio per frane o alluvioni, il 16 per cento del territorio nazionale. In Italia sono 1,28 milioni le persone che abitano in una zona a rischio frane, sei milioni in una a rischio alluvioni e nemmeno i morti possono stare tranquilli.

In Liguria, dove le bare di Camogli sono state recuperate a mare dai sommozzatori, ogni singolo comune ha una porzione a rischio e a quello per versanti instabili e fiumi imprevedibili si somma a quello dell’erosione costiera. È un’emergenza vecchia quanto la repubblica, ha attraversato i governi, le filosofie di spesa e intervento, le ondate di commozione per le tragedie ed è sempre rimasta tale: un’emergenza lunga settant’anni, eredità perenne di una generazione per la successiva, resa avvelenata dal cambiamento climatico.

Il rischio che l’adattamento del territorio possa finire in un angolo cieco della transizione ecologica era segnalato già dalla lettura delle bozze del Pnrr, dove le risorse per il dissesto erano poche e in gran parte già precedentemente stanziate dal precedente Piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico. Di nuovi fondi rimanevano 250 milioni di euro (su 70 miliardi dedicati ai capitoli di spesa ecologici).

Gli investimenti del Recovery

Il Consiglio nazionale dei geologi (Cng) aveva lanciato l’allarme su quel Recovery plan, poi travolto dal cambio di governo e da aggiornare alla prossima riscrittura targata Cingolani. «C’era un ragionamento di emergenza e non di prevenzione, ma riparare i danni costa fino a dieci volte di più che prevenirli», spiega Arcangelo Francesco Violo, presidente del Cng. E, a proposito, l’Italia è tra i paesi al mondo che pagano di più per risarcimenti e riparazioni da eventi di dissesto, come si leggeva sull’ultimo rapporto Città Clima di Legambiente: in media 3,5 miliardi di euro all’anno.

«C’è anche un problema di raccolta informazioni sul territorio», aggiunge Violo, «i piani di assetto idrogeologico vanno aggiornati, ce ne sono alcuni non revisionati da decenni, non si riesce a programmare niente su dati così vecchi. Il primo passo di una prevenzione efficace è il monitoraggio, mancano esperti e competenze, comuni ad alto rischio hanno al massimo un geometra per due giorni alla settimana». Il sindaco di Camogli ha parlato di evento impossibile da prevedere, a Repubblica il custode del cimitero ha detto che la gente aveva paura da mesi di andare a posare i fiori. Problemi di monitoraggio, appunto.

La fragilità del territorio non è solo un problema di risorse: secondo lo stesso rapporto Legambiente, dal 1999 al 2019 sono stati spesi 6,6 miliardi contro il dissesto, aperti migliaia di cantieri, un terzo già portati a termine. «Significa che affrontando il dissesto solo come un tema di soldi e cantieri non lo risolveremo mai», spiega Andrea Minutolo, coordinatore scientifico di Legambiente (e geologo a sua volta). «Dalla fine degli anni Novanta con le tragedie di Sarno e Soverato si parla di “mettere in sicurezza”, con un linguaggio sbagliato, che genera illusioni e fa abbassare la guardia. La lotta al dissesto è stata composta di interventi slegati gli uni dagli altri, con i problemi che vengono solo spostati, a valle o a monte». La frammentazione delle responsabilità tra le amministrazioni ha creato un approccio fallimentare e ha impedito una visione d’insieme, che permettesse di trattare suolo e acqua come una questione unica, che travalica i confini comunali e regionali.

«Il Po attraversa quattro regioni, ogni ente può fare una cosa differente, ma il Po rimane il Po, e gli interventi rischiano di rendersi inefficaci a vicenda con l’attuale frammentazione». Sul tavolo del nuovo governo finirà anche la questione del consumo di suolo, che è strettamente collegata all’adattamento climatico e al dissesto: la corsa alla cementificazione non si è mai fermata (16 ettari al giorno, due metri quadri al secondo, secondo Ispra) e rende l’Italia ogni anno più pericolosa. Una legge per promuovere il consumo zero viene invocata da anni ma ogni proposta è finita nel fuoco incrociato di veti e interessi. Forse un governo di unità nazionale è l’occasione buona.

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