Due tra le organizzazioni ambientaliste italiane più note, insieme a dodici privati cittadini, hanno lanciato la prima causa civile in Italia contro un’azienda per il suo contributo alla crisi climatica. ReCommon e Greenpeace hanno citato Eni in giudizio al tribunale di Roma, insieme ai suoi azionisti pubblici (ministero dell’Economia e delle finanze e Cassa depositi e prestiti) per le conseguenze delle sue attività nei combustibili fossili sul clima e sui diritti umani.

Greenpeace e ReCommon chiedono che i giudici si esprimano su due livelli. Il primo è una richiesta di accertamento del danno climatico presente e futuro causato dalle emissioni di CO2 di Eni per produrre petrolio e gas. Il secondo è la revisione del suo piano strategico, affinché sia allineato con le richieste di comunità scientifica e Onu, che sono: ridurre le emissioni del 45 per cento entro fine del decennio per conservare la possibilità di tenere il riscaldamento del pianeta entro limiti gestibili, cioè +1,5°C rispetto all’èra preindustriale.

Aprire il dibattito

La mossa si tiene in equilibrio su due piani, quello strettamente giuridico e quello politico. Al di là di quello che decideranno i giudici su cosa deve fare Eni, il procedimento sarà l’occasione di avviare una conversazione che in Italia ancora non è mai uscita dal mondo dell’ambientalismo.

Gli investimenti di Eni hanno una proporzione di 1 a 15 tra energia pulita ed energia fossile e le emissioni dei suoi progetti di estrazione di petrolio e gas nel mondo superano quelle dell'intera economia italiana. Secondo Oil Change International, gli investimenti Eni in oil&gas cresceranno del 3-4 per cento ogni anno fino al 2026.

La strategia del colosso energetico ha prodotto utile per azionisti, ma è compatibile con gli impegni internazionali dell’Italia sul clima, con i nuovi articoli sul rispetto dell’ambiente inseriti in Costituzione e con l’obiettivo generale di fermare il riscaldamento globale?

Come dice Antonio Tricarico di ReCommon, «speriamo che un giudice abbia voglia di aprire questo dibattito sulle responsabilità che Eni ha sul piano dei diritti umani messi in pericolo dai cambiamenti climatici: vita, salute, ambiente sano. Vogliamo che questo dibattito avvenga in un’aula di tribunale per consentire alla cittadinanza di capire chi ha ragione e chi no».

Da qualche anno, quella dei contenziosi climatici è una pratica consolidata: cittadini e organizzazioni provano a stimolare nuove politiche sul clima aggirando parlamenti, governi e aziende, passando dai tribunali. Nel 2021 la Corte costituzionale tedesca ha dichiarato incostituzionale la legge clima e ha obbligato il governo a rivederne gli obiettivi, nello stesso anno i giudici in Francia hanno condannato il governo per il mancato rispetto dei suoi impegni climatici, con un risarcimento simbolico ma una sconfitta politica bruciante.

In Italia c’è già una causa contro lo stato, promossa da una rete di altre organizzazioni e da rappresentanti di Fridays for Future ed Extinction Rebellion: è in attesa di giudizio. Tra quelle organizzazioni non c’erano Greenpeace e ReCommon, che avevano scelto un’altra strada: fare causa non allo stato ma all’azienda dei combustibili fossili più grande d’Italia.

Il risultato è stato presentato ieri a Roma. Il riferimento più diretto per gli avvocati di Greenpeace e ReCommon è una causa analoga avviata da oltre 17mila cittadini contro Shell in Olanda, che ha già vinto il primo grado di giudizio ed è in attesa del processo d’appello: se la tesi verrà confermata, Shell dovrà rivedere il suo piano di decarbonizzazione.

Impegni e investimenti

Quello che Greenpeace e ReCommon contestano a Eni è la contraddizione tra il suo impegno ad azzerare le emissioni nel lungo termine e il fatto che nei prossimi anni il 75 per cento degli investimenti saranno ancora in petrolio e gas, due tra i tre combustibili fossili che causano il riscaldamento globale.

Come spiega Tricarico, «noi speriamo che questa causa generi dibattito non solo nelle aule di tribunale, ma anche fuori». Il punto quindi non è tanto l’eventuale sentenza: quella di primo grado arriverebbe nel 2025. Seguendo i gradi di giudizio, con i tempi della giustizia italiana, si arriverebbe quasi alla fine del decennio.

È chiaro che una causa che mira a cambiare le strategie di Eni proprio entro il 2030 non guarda tanto all’esito finale, che arriverebbe in ogni caso fuori tempo massimo, quanto ai suoi effetti politici. È una visione confermata anche da Alessandro Gariglio, consulente legale di Greenpeace. «Sarebbe bello che questa causa non arrivasse mai a sentenza ma si esaurisse prima, per un intervento legislativo sul clima, che in Italia ancora non c’è stato, o perché Eni decide di cambiare il suo piano industriale».

La strategia è portare Eni in tribunale per avere effetti politici, sull’opinione pubblica, sugli investitori e sui controllori pubblici dell’azienda. Eni però non è mai stata così forte, l’amministratore delegato Claudio Descalzi è stato confermato per il quarto mandato da Giorgia Meloni. L’obiettivo è coinvolgere le opposizioni, a partire dal Pd di Elly Schlein, in una battaglia politica per cambiare le politiche di Eni.

Conclude Tricarico: «Siamo qui per rompere il velo di silenzio che c’è in Italia sulle conseguenze climatiche delle strategie energetiche dell’azienda. La questione Eni deve diventare politica». L’azienda ha reagito facendo sapere di essere pronta a dimostrare in tribunale «l’infondatezza dell’azione e la correttezza della propria strategia di decarbonizzazione, che bilancia gli obiettivi imprescindibili della sostenibilità, della sicurezza energetica e della competitività del paese».

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