È uno scenario ipotetico, di studio, ma immaginate: il presidente del Brasile Jair Bolsonaro processato dalla Corte penale internazionale come i signori della guerra in Congo e Darfur, non per crimini contro l’umanità ma contro la natura, la distruzione della foresta amazzonica. Oppure i dirigenti della BP imputati all’Aia per il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon.

Il crimine sarebbe ecocidio, l’uccisione dell’ambiente, anzi, etimologicamente: della nostra casa. Un movimento sempre più vasto di politici, attivisti ed esperti sta lavorando perché venga inserito tra i crimini internazionali perseguiti dalla Corte dell’Aia, per farne il quinto pilastro di questo tipo di legislazione, insieme al genocidio, ai crimini contro l’umanità, ai crimini di guerra e di aggressione. È una strada con molti più dubbi che certezze. Ci vorranno anni perché la proposta venga anche solo valutata, ci sono problemi di definizione, efficacia, limiti, riconoscimento giuridico, ma di un nuovo crimine internazionale ecologico si parla sempre di più e gli esempi dell’Amazzonia o del disastro ecologico del 2010 nel Golfo del Messico sono i più citati quando si tratta di ipotizzare cosa sia un ecocidio.

Arthur Galston

Il primo a parlarne fu un fisiologo delle piante ed esperto di bioetica americano, Arthur Galston, e il primo ecocidio a essere discusso come tale fu la devastazione dell’agente arancio durante la guerra in Vietnam. Da lì il dibattito si è protratto per decenni, uno dei suoi grandi sostenitori è stato il primo ministro svedese Olof Palme, assassinato nel 1986. I crimini ambientali sono apparsi e poi spariti dalle bozze dello Statuto di Roma, il trattato fondativo della Corte penale internazionale.

Era la fine degli anni ‘90, la conversazione sull’ambiente era in uno stato embrionale rispetto a quella attuale, non sembrava ancora una priorità, ci sono state opposizioni e alla fine i crimini ecologici sono stati inseriti tra quelli di guerra e non sono mai stati perseguiti all’Aia. Fino a oggi, ecocidio è stata solo una parola contenitore, un anatema, una definizione generica, un’aspirazione legale, ma non un crimine perseguibile internazionalmente. In questa fase, però, a cinque anni dagli accordi di Parigi e con una crisi climatica universalmente riconosciuta come tale, sono sempre più le voci che vorrebbero riempire quella parola di significati penali.

Il ciclone Pam

Lo scenario ha iniziato a cambiare nel maggio 2015, pochi mesi prima della firma sotto l’accordo di Parigi, per colpa di un ciclone chiamato Pam. È stato uno dei peggiori nella storia del Pacifico meridionale, che ha colpito l'arcipelago di Vanuatu, in Oceania, portandosi via con i suoi venti otto case su dieci e due terzi del Pil. È stato anche uno dei più violenti campanelli d’allarme per gli stati insulari del mondo, i più minacciati dalla crisi climatica, che porta non solo il lento innalzamento degli oceani ma anche fenomeni devastanti come questi cicloni categoria cinque, la più alta.

Quattro anni dopo, nel 2019, Vanuatu e Maldive hanno chiesto ufficialmente alla Corte penale internazionale di considerare una modifica del suo statuto che includesse l’ecocidio. Quell’anno il concetto è entrato nella conversazione globale. Ne hanno parlato il presidente francese Emmanuel Macron, che ne ha fatto uno dei simboli della faticosa transizione ecologica francese, e papa Francesco. Il pontefice, in attesa che fosse perseguito dalla legge, ha ipotizzato che potesse diventare un peccato per i cattolici. Da allora l’idea di ecocidio è stabilmente in circolo nel dibattito.

Orizzonte giugno

Il 20 novembre 2020 il comitato Stop Ecocide ha annunciato la formazione di un gruppo di esperti legali per arrivare a una definizione esatta da proporre alla Corte penale internazionale. La data dell’annuncio era stata scelta con simbolica accuratezza: quel giorno era il 75esimo anniversario dell'inizio del processo di Norimberga contro i crimini dei nazisti. La direttrice del comitato è un’attivista britannica di lungo corso, Jojo Mehta. Al di là della scelta di date evocative, Mehta ha davanti a sé un compito arduo: mettere a punto una definizione legalmente accettabile di un crimine ampio ma anche difficile da individuare nei termini di un processo penale, soprattutto quando si passa da catastrofi ecologiche locali alla crisi climatica globale. Cos’è un ecocidio? Una centrale a carbone è ecocidio? Un pozzo di petrolio lo è? Molte delle attività più nocive per l’ambiente sono anche perfettamente legali. Lo scopriranno: la proposta di Stop Ecocide dovrebbe essere pronta per giugno.

Nonostante le difficoltà giuridiche e concettuali, il consenso intorno a questa idea si è nel frattempo allargato. Si è spesa a favore di questa valutazione la ministra degli Esteri (ed ex premier) del Belgio, Sophie Wilmès, ne hanno discusso i parlamenti di Spagna, Finlandia e dello stesso Belgio, c’è anche una relazione al parlamento europeo che menziona questa possibilità, firmata dall'eurodeputata verde Marie Toussaint.

A cosa serve?

A che servirebbe l’ecocidio? Mentre gli sforzi per la mitigazione della crisi climatica sono sempre più internazionali, la legislazione ambientale è rimasta nazionale. Anche grandi scandali recenti come Dieselgate e Deepwater Horizon, con i loro risvolti civili e penali, sono stati affrontati dai tribunali della Germania e degli Stati Uniti. «Non c’è una legge criminale internazionale che oggi possa essere applicata, in modo chiaro e diretto, sui peggiori assalti agli ecosistemi ambientali, che siano la degradazione delle foreste, l'avvelenamento dei fiumi o l'estinzione delle specie», ha spiegato a Politico Richard J. Rogers, avvocato che si occupa di diritto internazionale, che ha lavorato per la Corte dell’Aia e che fa parte dell’advisory board di Stop Ecocide.

L’ecocidio, nell’idea della sua principale sostenitrice, Jojo Metha, avrebbe una funzione di deterrente, perché le aziende vedono le multe contro i danni ambientali come parte dei costi del business, ma non vogliono essere associate a una responsabilità penale, soprattutto se di così alto profilo. In ogni caso, questa non potrebbe essere attribuita alle aziende ma solo alle persone che le guidano, e questa è considerata un'altra potenziale debolezza per la possibilità di perseguire con efficacia un ecocidio.

Un’intesa globale

L'idea di rendere i colpevoli di crimini ambientali su larga scala processabili e condannabili è suggestiva, infatti funziona non solo con gli attivisti impegnati da decenni a combatterli, ma anche con le guide morali, come il papa, e con i leader in difficoltà con gli aspetti più pratici della transizione ecologica, come Macron, che ha definito questa come «la madre di tutte le battaglie ambientali». Ma per una sua effettiva implementazione serve un accordo globale più difficile da raggiungere di quello sulla decarbonizzazione o la neutralità climatica.

Nessun paese ha ancora formalmente avviato il processo di ratifica dell’emendamento sull’ecocidio, iter lungo e complesso. Serve il supporto di due terzi (o di sette ottavi, a seconda della formula dell’emendamento) dei 123 paesi membri della Corte penale internazionale. In ogni caso, non ne fanno parte Cina, India, Russia e Stati Uniti. I più grandi inquinatori mondiali sarebbero quindi fuori dalla sua giurisdizione. Ci rientrerebbero però nel caso in cui l’ecocidio fosse commesso sul territorio di uno degli stati membri della corte (per esempio da parte di un’azienda).

Sono questi i motivi per cui Vanuatu e Maldive non hanno mai presentato formalmente la loro richiesta: così, isolata, sarebbe simbolica ma politicamente velleitaria. Per inserire un nuovo crimine internazionale tra quelli perseguibili della Corte penale internazionale serve un robusto consenso diplomatico, che al momento non esiste. Macron è il leader più importante ad aver sposato l’idea di farne una battaglia internazionale, ma la proposta di legge francese sull’ecocidio – promossa dalla Convenzione dei cittadini sul clima – è stata presentata al parlamento in una versione molto indebolita, criticata anche dagli stessi sostenitori di Stop Ecocide. Nonostante tutta l’incertezza che la circonda e che fa sembrare il progetto uno sparo verso la luna, al fondo di questa idea c’è però un bisogno globale potente, rimasto finora senza risposte vere: una richiesta di responsabilità, soprattutto mentre le politiche del clima procedono così lentamente e risultano più spesso declinate al futuro remoto invece che al presente. Più che un vero deterrente contro i disastri ecologici, al momento la campagna internazionale per il crimine di ecocidio sembra alla ricerca di un segnale di speranza e senso di realtà. 

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