Schiacciata tra Cina e Usa, l’Europa riparta dagli appalti

Quale spazio rimane per l’Europa, per le sue imprese e il suo modello sociale in uno scenario che la vede costretta tra la prepotenza e i dazi di Donald Trump da un lato e una concorrenza cinese dall’altro, che punta a invadere il mercato continentale con prodotti a basso prezzo anche nei campi tecnologicamente più avanzati e che sono il cuore della transizione energetica? La risposta a questa domanda merita una riflessione seria, urgente per costruire una strategia che guardi al futuro delle proprie imprese e di quello che è ancora oggi il più ricco e grande mercato unico del mondo e dove più alta è l’attenzione da parte dei cittadini alla qualità e sostenibilità ambientale, alla salubrità dei prodotti a tutela dei consumatori. Nessuno ne parla, ma a Bruxelles sta passando un treno che potrebbe portare l’Europa fuori da questo deserto di idee e concrete speranze. La Commissione europea ha infatti aperto il processo di revisione della direttiva Appalti pubblici con l’obiettivo di rafforzare il mercato unico, modernizzare le procedure e trasformare gli appalti in uno strumento strategico per la competitività, la sostenibilità ambientale e l’autonomia europea. Per far capire la dimensione delle risorse in gioco, stiamo parlando di 2.000 miliardi di euro di appalti ogni anno nei diversi settori. LacommissariaUe:«Lanciola nuovastrategiaLgbtqi+ perun’Europadell’uguaglianza» Quale direzione? In quale direzione dovrebbe andare la riforma della direttiva Appalti? Il parlamento europeo, attraverso la commissione Mercato interno e protezione dei consumatori, ha pubblicato nel 2025 un rapporto che definisce i princìpi che dovrebbero guidare la riforma: adozione sistematica del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (per contrastare i massimi ribassi), maggiore inclusione delle Pmi, rafforzamento della resilienza delle catene di approvvigionamento e riconoscimento formale di criteri ambientali e sociali nei bandi. Non sarà una discussione semplice perché è forte la spinta di chi invece punterebbe tutto sulla riduzione della burocrazia per le imprese, a ridurre gli standard sociali e ambientali per i prodotti in ingresso come chiedono gli Stati Uniti. A queste tesi si contrappone una campagna, denominata Besa (Buy European and Sustainable Act) che invece invita a giocare fino in fondo una sfida di rilancio e cambiamento, che indirizzi la domanda pubblica a supporto dell’innovazione delle imprese premiando le filiere locali europee. Ossia di costruire un modello europeo di procurement che attraverso obiettivi di riduzione delle emissioni di Co2 e criteri di localizzazione premi il Made in Europe e dia un chiaro segnale alle imprese su dove puntare per il futuro e investire. Trump contro la scienza: cancellati siti e dataset sull’ambiente. Gli ex dipendenti pubblici li recuperano In una prospettiva di questo tipo, dove si fissano con chiarezza i limiti emissivi negli acquisti di acciaio, alluminio, cemento in linea con le migliori tecnologie disponibili e la capacità industriale degli stati membri si possono avviare cicli virtuosi di reindustrializzazione. Stessa cosa vale per i prodotti agricoli, ma anche per risorse e materiali recuperati e riciclati. E a maggior ragione tutto questo vale se si fissano chiari criteri premiali localizzativi, ad esempio che un minimo percentuale dei beni acquistati in settori strategici per la transizione energetica siano realizzati in Europa. Pensiamo cosa questo vorrebbe dire per settori strategici come le batterie di accumulo, le tecnologie rinnovabili, la mobilità elettrica, i sistemi di riscaldamento e raffrescamento degli edifici. Un mercato europeo dove non ci si difende alzando mura o introducendo dazi, ma che premia le prestazioni ambientali, la qualità, le filiere territoriali e quindi costringe i concorrenti extra europei ad alzare il livello delle prestazioni o ad aprire fabbriche in Europa. È una discussione che va seguita con attenzione e che meriterebbe un confronto all’altezza delle sfide che si aprono, con studi di impatto nelle diverse filiere di cosa potrebbe succedere spingendo in questa direzione o continuando, invece, a rimanere senza una bussola e a subire le conseguenze del dumping ambientale e sociale sui diritti dei lavoratori. Salute, lavoro e ambiente: l’appello contro la deregolamentazione dei diritti da parte della Commissione Ue Modello Italia E l’Italia cosa avrebbe da guadagnarne? Pochi ne sono a conoscenza, ma l’Italia è oggi uno dei paesi più avanzati al mondo nel green procurement. Il nostro paese ha infatti progressivamente introdotto Criteri Ambientali Minimi in 20 settori e categorie di appalti, dall’edilizia alle mense, dall’illuminazione pubblica ai rifiuti. Nessun settore è andato in crisi, nessuna azienda è fallita, piuttosto si è andato articolando progressivamente un sistema di appalti con obiettivi e criteri ambientali che ha dato il tempo alle imprese di riorganizzarsi e indirizzare gli investimenti. Inoltre, l’esperienza del Pnrr ha consentito di fare un ulteriore passo in avanti, con il criterio di sostenibilità DNSH (Do No Significant Harm) da rispettare in tutti gli appalti. E anche qui nessun blocco agli appalti, semmai un innesto di competenze che ha fatto crescere l’intero sistema. Un paese che da 26 mesi sconta un continuo declino della produzione industriale e che può vantare un sistema di piccole e medie imprese con una forte vocazione territoriale avrebbe tutto l’interesse a sedersi al tavolo della riscrittura del sistema degli appalti pubblici per farli diventare il pilastro di una strategia industriale nazionale capace di spingere gli investimenti e rilanciare le filiere strategiche, di ridurre consumi energetici ed emissioni e così, di conseguenza, importazioni di materie prime e fonti fossili. Trump contro la scienza: cancellati siti e dataset sull’ambiente. Gli ex dipendenti pubblici li recuperano Non esiste un’alternativa migliore o più efficace, semplicemente questo è l’ultimo treno per uscire dal declino e da un destino di marginalità, per usare le parole di Mario Draghi. Saprà Confindustria capirlo? E sarà possibile aprire una discussione seria su come si difendono gli interessi nazionali che vada oltre gli schieramenti politici e gli slogan copiati da oltre oceano?