Una nuova parola è entrata quest'anno stabilmente nel lessico dell'ecologia: «inattivismo». L'ha usata il climatologo americano Michael E. Mann nel libro La nuova guerra del clima. La crisi non viene più negata, non è più una strategia spendibile dopo l'estate dei disastri, delle temperature record e del nuovo rapporto Ipcc.

Le nuove tattiche sono rallentare, dividere e deviare il discorso, sono all'origine della retorica sui costi della transizione e del bagno di sangue. È anche contro l'inattivismo che scendono di nuovo nelle piazze italiane i Fridays for Future.

Le manifestazioni di oggi provano a essere l'antidoto contro il rumore di fondo della transizione ecologica, nel quale ogni occasione diventa buona per agitare paure, come dimostrato dalla crisi delle bollette. «I rincari sono stati causati dalla volatiltà di una fonte fossile, il gas, ma per giorni se ne è parlato come se fosse colpa della transizione energetica, come se quel rincaro fosse il costo dell'ecologia presentato ai cittadini», dice Giovanni Mori, uno dei sei portavoce del movimento in Italia.

Prima possibile

I movimenti per il clima in Italia scendono in piazza con due interlocutori in mente. Il primo è la «maggioranza silenziosa», come la definisce Mori, «perché la domanda di cambiamento deve diventare di massa, vogliamo che le persone prendano posizione».

È la complicata sfida di trasformare una diffusa sensibilità ambientale in politica: in Germania i Verdi a giugno erano lanciatissimi, dopo i disastri climatici dell'estate hanno iniziato a declinare invece di rafforzarsi, come sarebbe stato logico. In Italia il materiale per creare questo consenso ci sarebbe anche: uno studio Ipsos uscito ieri dice che per l'81 per cento degli italiani i cambiamenti climatici sono un'emergenza reale e grave da contrastare il prima possibile. È la seconda parte del concetto quella decisiva per i Fridays for Future: «il prima possibile».

Whatever it takes 

C'è consenso globale sul fatto che la transizione verso le zero emissioni si farà, piazze e scienza questo risultato lo hanno raggiunto, la nuova contesa è sulla materia più politica di tutte: il tempo. Due anni fa, quando prima della pandemia portarono milioni di persone in strada, gli attivisti presidiavano la consapevolezza sulla realtà della crisi climatica, oggi invece l'urgenza dell’azione, che nel 2020 è stata certificata dai due più importanti rapporti sul tema, quello già citato dell'Ipcc (quindi l'Onu) e quello dell'Agenzia internazionale dell'energia, di solito molto conservatrice.

Entrambi ci dicono che un cambio di rotta per tenere il riscaldamento della Terra a 1.5° C è possibile, a condizione di agire rapidamente e fare il grosso entro questo decennio, quindi immediatamente. Il problema è che il tempo intercorso tra l'accordo di Parigi (2015) e la nuova COP di Glasgow è stato sostanzialmente sprecato.

Oggi siamo sulla rotta di un aumento delle temperature di 2.7° C, come ha detto il segretario dell'Onu António Guterres, quasi il doppio del consentito per non far crescere figli e nipoti in un film apocalittico. Lo stesso Draghi ha riconosciuto che non stiamo rispettando le promesse di Parigi.

Ed è infatti Mario Draghi il secondo vero interlocutore delle piazze italiane di oggi, molto più che il ministro Cingolani, che col mondo dell'attivismo ambientalista ha un rapporto di ricambiato disprezzo. I movimenti di tutti i grandi paesi europei, e i nostri in particolare, non chiedono solo che vengano fatti i compiti a casa, pretendono anche leadership internazionale.

Ragionano su scala globale: l'Unione Europea conta solo per l'8 per cento delle emissioni, l'Italia ovviamente ancora meno. A Draghi non chiedono solo di guidare l'Italia in senso ecologista - come ha dimostrato di voler fare sin dal primo discorso al Senato - ma di essere anche un protagonista internazionale.

Verso il summit

Lo sciopero è strategicamente piazzato all'inizio di questa stagione dei grandi summit sull'ambiente, che vede l'Italia al centro della scena. La settimana prossima c'è la PreCOP a Milano, abbinata a un evento chiamato Youth4Climate e dedicato proprio all'ascolto delle proposte dei giovani attivisti.

Il 30 e 31 ottobre a Roma c'è l'evento centrale del G20 a presidenza italiana, un volano per i negoziati sul clima che iniziano il giorno dopo, il 1 novembre a Glasgow, la COP26, organizzata congiuntamente da Regno Unito e Italia.

Tra il 28 settembre e il 12 novembre si riscrive il futuro del clima. C'è da chiudere la stagione del carbone (fronte sul quale l'Italia è avanti e può dare lezioni), gestire e migliorare i flussi degli aiuti ai paesi vulnerabili (e qui come Italia siamo purtroppo indietro).

«Quando ci ricapita un presidente del Consiglio così autorevole in un momento in cui l'Italia è così centrale?», ragiona Mori, «Noi siamo in piazza anche per chiedere a Draghi di usare tutta quell'autorevolezza». Vogliono un whatever it takes del clima, insomma.

Non tutti i segnali sono eccellenti: per rafforzare il nostro impegno diplomatico, da tempo l'Italia ha promesso e annunciato la nomina di un inviato per il clima, pari grado di quello britannico, americano o cinese. Il New York Times raccontava ieri che i capi diplomatici sull'ambiente di Usa e Cina, John Kerry e Xie Zhenhua, si sono incontrati diciannove volte quest'anno, c'è un flusso di diplomazia che l'Italia non riesce a coprire senza una figura specializzata. Ad agosto, Di Maio (titolare della scelta insieme a Cingolani) aveva assicurato che entro settembre la persona sarebbe stata messa al lavoro, ma ancora non è successo.

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